di Federico Parmeggiani
Da qualche tempo Il Sole 24 Ore espone sul suo sito un singolare contatore che mostra il numero dei fallimenti di imprese avvenuti in Italia da inizio anno, presentando separatamente anche l’analitica giornaliera di questa triste contabilità. I numeri sono impressionanti: dall’inizio del 2013 sono fallite ormai più di 6500 imprese e siamo giusto a metà anno.
Questo dato sconfortante è da imputarsi a svariate ragioni: in primo luogo la congiuntura economica nefasta, che ha portato al crollo della domanda interna di beni e servizi, da quelli più sofisticati fino ai consumi basilari delle famiglie. Se poi vogliamo scendere più nello specifico, è notorio che la diretta causa di morte di molte imprese consiste nell’infinito ritardo con cui sono pagate dai propri debitori e in particolare dagli enti pubblici, aggravato dall’inflessibile e talvolta spietata puntualità con la quale l’erario pretende i suoi tributi. Questa situazione ha effetti letali se combinata con l’operato delle banche italiane che, da qualche anno, hanno pressoché abdicato alla loro funzione di esercizio del credito e trattengono la liquidità di cui dispongono con un’attitudine prudenziale ma anche distruttiva.
Ebbene, questo scenario lugubre non può che essere posto in stretta correlazione col fallimento più grande di tutti, ossia quello della politica. Meglio: delle politiche economiche. Dall’inizio della crisi non si fa altro che parlare della necessità di scelte che portino sviluppo produttivo, una mano pubblica che non sia pianificatrice del mercato ma piuttosto una sua levatrice, capace di seminare incentivi per raccogliere crescita. Purtroppo va constatato come in questi anni ciò non sia avvenuto, e come al contrario il potere politico – certamente incalzato da un’Europa piuttosto miope e ossessionata dal risanamento del bilancio a ogni costo – abbia concepito le imprese italiane unicamente come una fonte di entrate erariali, una risorsa da spremere senza curarsi minimamente di facilitarne lo sviluppo tramite un radicale snellimento del giogo burocratico e senza comprendere che da un contesto di utili in crescita anche l’erario non avrebbe che da guadagnarci.
Oggi però stiamo giungendo velocemente al punto di rottura e questo pressapochismo tutto italico in base al quale i problemi si risolvono da soli procrastinandone la soluzione e sopportandone le conseguenze sgradevoli – ben sintetizzato nel detto partenopeo ha da passà ‘a nuttata – può avere conseguenze inimmaginabili. Dati recenti mostrano chiaramente come il Pil del primo trimestre 2013 sia più basso del 2,3% rispetto a quello dell’anno precedente, proprio quando ci era stato detto che il peggio era oramai alle spalle. Bene, ora un Governo ce l’abbiamo, per quanto a dir poco eterogeneo e di non facile gestione: è giunta l’ora che faccia sentire il suo peso in Europa e che metta al primo posto nella sua agenda sgravi fiscali per le imprese e semplificazione burocratica. Senza crescita ogni altra politica volta a migliorare l’italia è destinata a fallire, esattamente come le migliaia di piccole imprese che abbiamo lasciato sul campo e tutte le altre destinate a fare la stessa fine.