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Recentemente la notizia del downgrade del rating del nostro paese (da A+ ad A) ad opera dell’agenzia Standard & Poor’s, ha scosso le borse, nonostante non sia giunta totalmente inattesa. Il problema è che questa bocciatura è arrivata in uno dei momenti più delicati degli ultimi venti anni: un periodo drammatico non solo per le economie dei singoli paesi europei, ma, in via indiretta, anche per la sopravvivenza dell’Unione Europea stessa come soggetto politico sovranazionale. Quanto evidenziato da Standard & Poor’s nel report che illustra le ragioni alla base del nostro downgrading dovrebbe suonare per tutti noi italiani come un campanello d’allarme e dovrebbe essere preso in assoluta considerazione da coloro che, chiamati a prendere decisioni, hanno di fatto nelle mani il destino dell’economia del nostro paese.

Il giudizio dell’agenzia è lapidario e molto semplice nel cogliere punti di forza e debolezze. Tra i primi spiccano l’alto livello di prodotto interno lordo pro capite, un elevato tasso di proprietà della casa di abitazione, i bilanci solidi delle imprese, nonché esposizioni verso l’estero limitate. Tuttavia, questi pregi sono controbilanciati da difetti strutturali che ci portiamo dietro da anni e che paiono particolarmente pericolosi in questo periodo: un elevato debito interno, limitate prospettive di crescita e soprattutto – queste le stoccate più dure a chi guida il paese – una significativa incapacità politica di perseguire riforme che stimolano la crescita, e un impegno limitato a tagliare le spese, che si evince dalle politiche fiscali di medio periodo.
Questi ultimi rilievi dovrebbero farci riflettere, e parecchio, perchè a ben vedere non riguardano le nostre storiche debolezze, che sono riflesse dagli indicatori economici, ma qualcosa di ulteriore e più grave. Per comprendere meglio la portata del problema, esaminiamo i singoli punti critici evidenziati.
Che il nostro debito interno sia elefantiaco, purtroppo, è cosa risalente e nota. Tutti ricordiamo gli sciagurati provvedimenti presi dai governi dei decenni passati che, per carpire un po’ di consenso elettorale, si sono profusi in regali previdenziali economicamente non sostenibili (le famigerate baby pensioni, per esempio) e in emissioni di titoli di debito con rendimenti fuori da ogni finanza pubblica sensata, mossi solo dalla volontà miope di fare cassa nel breve periodo. Ciò che però dovrebbe farci ancora più irritare è che, come sottolineato con dati alla mano in maniera pregevole anche da Oscar Giannino, gran parte del debito di cui ora siamo gravati è il frutto dei governi che si sono succeduti in questi ultimi due decenni. In altri termini, coloro che hanno accumulato questa quantità mastodontica di spesa sono gli stessi che abbiamo davanti agli occhi ogni volta che accendiamo la televisione o apriamo un giornale. Forse è davvero ora di evocare un rinnovamento radicale, un ringiovanimento non solo anagrafico ma anche culturale della nostra classe dirigente, perchè se non vale la pena farlo in una situazione così grave, allora forse dobbiamo ammettere a noi stessi che non saremo mai capaci di farlo.
In secondo luogo, affrontiamo il nodo della crescita quasi impercettibile della nostra economia. Un punto cruciale è costituito dalla dimensione delle nostre imprese, magari leader nel loro settore, ma mediamente troppo piccole per fare la differenza a livello globale. Le grandi imprese – gestite correttamente e non come un ospizio per parcheggiare politici trombati – sono i pilastri su cui poggia un’economia sana e forte. Sono quelle che, in periodi di burrasca, tengono a galla anche la galassia di piccole imprese del loro indotto. In Italia abbiamo una miriade di imprese che sarebbero facilmente integrabili sia in senso verticale che orizzontale, divise solo da ancestrali rivalità e diffidenze tra i proprietari. Una politica economica responsabile dovrebbe proporre degli ingenti sgravi fiscali per tutte quelle operazioni di fusione, acquisizione e integrazione volte a fare nascere soggetti economici più grandi e più stabili. Altre misure per rilanciare la crescita si basano ovviamente sulla riforma del mercato del lavoro e della fiscalità d’impresa. Sono temi complessi che richiederebbero decine di pagine, qui basti dire che sarebbe sufficiente, in ambo i casi, rimuovere vistose iniquità che vanno a discapito della parte più virtuosa ed efficiente del Paese.
Ma veniamo all’ultimo punto evidenziato da Standard & Poor’s: l’incapacità della nostra classe politica di fronteggiare un momento delicato come quello presente. L’agenzia di rating in questo caso si pronuncia in modo così cristallino che merita di essere riportato letteralmente, tradotto: grazie alle istituzioni politiche inadatte, ai monopoli protetti dal sistema marcatamente anticoncorrenziale, grazie ad un pubblico impiego e ad un sistema di relazioni sindacali vetusto, l’Italia non è in grado di rispondere in modo efficace e tempestivo alle sfide cui le sue precarie condizioni economiche la sottopongono.
A mio giudizio è ora di inchiodare il sistema-Italia e la sua classe dirigente alle sue responsabilità. Se vogliamo evitare di infrangerci come il Titanic contro l’iceberg della recessione e della stagnazione, dobbiamo tutti premere per un rinnovamento radicale e immediato. Dobbiamo fare tutta la pressione possibile per ottenere una modernizzazione effettiva delle istituzioni, magari riservando finalmente uno spazio adeguato ai tecnici di spessore e indiscussa preparazione, di cui il nostro paese dispone in gran numero. Dobbiamo scrollarci di dosso, a costo di fare dei sacrifici, tutte quelle scorie di un passato nefasto e non più sostenibile. La sopravvivenza del nostro sistema economico richiede da anni un cambiamento, con la differenza che ora il tempo sta scadendo e mancare a questo appuntamento con la storia economica può costare al nostro paese un prezzo estremamente caro. Così caro che è meglio non mettersi nemmeno a calcolarlo e piuttosto mettersi da subito all’opera per facilitare questo rinnovamento.

Mentre andiamo in stampa anche Moody’s e Fitch ci hanno declassati, ndr.