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Nel boom di interesse che si è scatenato negli ultimi anni attorno a tutto ciò che riguarda il food (“un segno della decadenza della civiltà occidentale”, secondo lo scrittore Antonio Scurati), diventato ormai una vera mania, una bolla che presto secondo molti osservatori è destinata a scoppiare lasciando sul campo morti e feriti, ci si dimentica spesso di un particolare assai importante.
Oggi non c’è niente di più democratico della cucina d’autore. Frequentare un ristorante stellato, in particolare quando le stelle Michelin sono 2 o addirittura 3, è sicuramente costoso. È quasi impossibile infatti avere un’esperienza significativa della cucina di quel locale senza spendere meno di 150 euro (se le stelle sono due) o 250 euro a testa (se le stelle sono tre) più il vino. Ebbene, 500 euro per una cena per due persone sono indubbiamente tanti, ma restano una spesa alla portata di molti. Quasi tutte le persone con un lavoro full time a tempo indeterminato, insomma, magari rinunciando ad altre spese, possono togliersi il lusso e lo sfizio di andare a cena in un ristorante pluristellato. Pochissimi invece possono comprarsi un Picasso, o acquistare uno Stradivari, o mettersi in garage una Ferrari., o regalare all’amante una borsa di Valentino al termine di una passeggiata romantica in Avenue Montaigne. Insomma, la cucina d’autore non è più esclusiva e selettiva sul piano sociale come lo era fino a 15-20 anni fa. È forse questa la vera rivoluzione compiuta da chef come Massimo Bottura e Renè Redzepi. Hanno liberato i loro ristoranti dal formalismo e dalle differenze di censo che li sbarravano a quasi tutti i comuni mortali e li rendevano luoghi elitari e praticamente inaccessibili a chi non disponesse di robustissime capacità di spesa. Hanno capito che il casaro che produce artigianalmente poche forme di formaggio all’anno può avere la stessa dignità dell’erede di una famiglia baronale proprietaria di un vigneto a Montalcino, che il pizzaiuolo con la terza elementare può essere più prezioso per la cucina d’avanguardia dello chef con la puzza sotto il naso celebrato dalle grandi guide.
Eppure anche chi va al ristorante si trova ancora oggi alle prese con una barriera che segna il discrimine netto tra chi è ricco e chi è non lo è: il vino. Qualche tempo fa ero a pranzo in un ristorante con una stella Michelin, dove ho cenato divinamente spendendo una cifra niente affatto esosa, 65 euro. Come faccio sempre, mi sono divertito a leggere la carta dei vini. A un certo punto il mio cuore è sobbalzato. In una delle pagine dedicate ai rossi di Francia, ho incontrato Lei, la bottiglia dei miei sogni. Una Chateau Margaux del 2009. Un vino leggendario, il Bordeaux amato alla follia da Frederich Engels, che ne beveva in non modiche quantità. Purtroppo il prezzo non mi ha lasciato scampo: 950 euro. Troppi per le mie tasche e per il mio tavolo da due.
Resta aperta la discussione tra gli enologi se una qualsiasi bottiglia possa valere prezzi del genere, fatto sta che il vino continua a dividere i clienti dei ristoranti in base al censo e alla classe.
E allora non dimentichiamo che non ci sono solo le cucine di classe, ovvero i ristoranti stellati dove il grandissimo chef riesce a far sentire a proprio agio sia l’impiegato di banca che l’azionista di maggioranza di quella stessa banca, trattandoli esattamente alla stessa maniera. Sopravvivono ancora tante cucine classiste, dove, se sei il tycoon proprietario di una multinazionale della moda, lo chef ti accoglie col tappeto rosso e si inchina davanti a te a 90 gradi quando arrivi e quando te ne vai. Se invece sei un’operaia tessile di quella stessa azienda e tuo marito decide di farti il regalo dell’anniversario di matrimonio portandoti in quel ristorante, lo chef di grido non lo vedi neanche in cartolina e camerieri imberbi usciti da poco dalla scuola alberghiera, e incapaci di distinguere un Lambrusco da un Chinotto, ti accolgono più o meno come il commissario Auricchio alla Parolaccia in Fracchia la belva umana.