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Ascoltavo alla radio qualche giorno fa un commentatore richiamare una distinzione tra il pensiero greco e quello cristiano attribuita a Umberto Galimberti, un filosofo che oggi è diventato mainstream, essendo riuscito a fuoriuscire dai circoli accademici e a diventare protagonista, anche grazie alla tv e ai quotidiani generalista, della cultura di massa. Secondo Galimberti, che ama le affermazioni apodittiche e assai tranchant, la filosofia greca sarebbe tragica, mentre il cristianesimo sarebbe orientato alla speranza e all’ottimismo, grazie al telos, cioè al fine che, partendo dal peccato originale, condurrebbe i credenti verso la salvezza.
Come inquadrare in questa visione, mi chiedo, la figura di Martin Lutero?
La centralità nella storia dell’Europa del sacerdote tedesco che creò il più importante scisma nella storia della Chiesa viene continuamente ribadita dagli studi di carattere storico e teologico che hanno per protagonista l’uomo delle tesi di Wittenberg. Ad esempio il saggio “Martin Lutero a Roma” di Michael Matheus, Arnold Nesselrath e Martin Wallraff, recentemente tradotto in Italiano da Viella, sul viaggio compiuto nel 1511 da Lutero nella Roma di Michelangelo, Raffaello e Giulio II, prima delle Tesi e della successiva scomunica.
Molti aspetti delle riflessioni e delle predicazioni di Lutero furono senza dubbio rivoluzionari, ma uno in particolare colpisce per la sua radicalità. Secondo Lutero, come è noto, l’uomo non può raggiungere la salvezza attraverso le opere di bene: l’uomo può essere salvato solo dalla Grazia di Dio. L’uomo deve “disperare di sé” e non può raggiungere la Salvezza “con le sue corte braccia”, poiché è irrimediabilmente segnato dal peccato e nulla, se non una generosa e immeritata concessione di Dio, può spalancargli le porte del Paradiso. La Fede, non le opere, è la condizione necessaria ma non sufficiente per essere salvati.
Questa visione mi sembra modernissima e antichissima allo stesso tempo. E’ moderna, perché gran parte della psicanalisi e della filosofia del XX secolo, o almeno quella che trova le proprie radici nel “legno storto dell’umanità” di kantiana memoria, ha proclamato i limiti e la finitezza dell’essere umano, che sarebbe un coacervo di istinti biologici, pulsioni generate dall’inconscio e assunzioni etiche ed ideologiche le quali, quando vengono analizzate razionalmente, non hanno in sé nessuna verità definitiva. Ma è anche antica: gran parte del pensiero stoico ed epicureo infatti invita a “vivere alla giornata” e Socrate ci ricorda la limitatezza e l’incompletezza delle nostre conoscenze (“l’unica cosa che so è quella di non sapere”). I Greci ci insegnano a relativizzare i princìpi e le passioni ai quali spesso sacrifichiamo le nostre stesse vite.
Dunque Lutero, un professore tedesco di teologia che con la sola forza della parola avrebbe spaccato l’Europa cristiana in due e di fatto avrebbe scatenato nel 1524 una sanguinosissima guerra civile in Germania – la Guerra dei Contadini – si convinse dopo un periodo di ascesi e vita monacale che nulla, se non la volontà di Dio, lo avrebbe mai potuto redimere dalla sua condizione ab origine di peccatore, e nel 1517 lo comunicò al mondo.