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Come è noto, anche Reggio Emilia è stata pesantemente investita dalla crisi industriale e finanziaria che ha colpito dal 2007 le economie avanzate di tutto il mondo.
A livello locale, abbiamo assistito alla crisi delle cooperative di produzione Cmr, Orion, Cormo, Ccpl, Unieco e Coopsette, ma sono andate in difficoltà anche importanti aziende private che hanno fatto la storia del nostro territorio. Fantuzzi-Reggiane, Mariella Burani, Montanari, Artoni, per citare solo le più significative e, da ultime, con esiti però ancora da definire, Ferrarini e Tecno, hanno coinvolto un indotto non meno rilevante, per fatturato, numero di dipendenti, fornitori e creditori, di quello interessato dalla crisi delle grandi cooperative.
Ma se le cooperative di costruzioni hanno dovuto fare i conti con il crollo devastante dei mercati di riferimento, sui quali in pochi anni si è abbattuto uno tsunami che ha ridotto patrimoni e volume di affari del 60-70% – in Italia ormai non è più possibile spostare tre alberi nè belli nè antichi, figuriamoci se si riescono a costruire in tempi non biblici una Gronda o una nuova tangenziale – per le grandi famiglie imprenditoriali reggiane i dissesti sembrano di meno immediata comprensione. Sarebbe troppo semplicistico dire, con Schumpeter, “dalla tuta alla tuta nell’arco di tre generazioni”: il successo di un’impresa, secondo il grande economista austro-americano, non è dato per sempre, alla fine il vantaggio competitivo viene eroso dai concorrenti e i nipoti dell’ex operaio, diventato tycoon, rischiano seriamente, più prima che poi, di dover tornare a lavorare in fabbrica. Ma noi non ci avventureremo in questo tipo di analisi. Ci basta segnalare in questa sede che la lettura della crisi, fatta da un bel pezzo della classe dirigente della nostra provincia, è stata del tutto parziale. Sulla graticola, esposti al pubblico ludibrio, sono finiti solo i cooperatori. “Traditori dei valori originari prampoliniani, manager pasticcioni messi lì dalla politica, campioni delle porte girevoli”, ecc: molti, politici e giornalisti in primis, hanno maramaldeggiato e profuso fiumi di commenti al vetriolo sugli ex-dirigenti delle cooperative in crisi, non lesinando giudizi sprezzanti ed estremamente tranchant. Per i grandi nomi dell’imprenditoria privata invece, “regna un grande silenzio” come scriverebbe il poeta bosniaco Maksumic. Nei loro confronti la mannaia mediatica, che si è più volte abbattuta impietosamente sui cooperatori, è diventata piuma. Se si fa parziale eccezione per il crack Burani, che ha avuto anche risvolti giudiziari, nei confronti delle grandi famiglie dell’imprenditoria reggiana ha prevalso l’understatement. Chissà, le crisi delle loro imprese saranno imputabili alla sfortuna, o al destino cinico e baro… Peccato che a questo strabismo abbia dato un contributo anche la sinistra, che si è rivelata sostanzialmente incapace di leggere i fenomeni, che hanno attraversato l’imprenditoria locale, senza i paraocchi del populismo, lo spirito del tempo che ammorba l’Italia e minaccia l’Europa.