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Una scena del film “Chi più spende più guadagna” (1985)

Gli ultimi mesi hanno regalato all’Italia una serie di notizie positive sul fronte economico. Dopo 15 anni e 14 declassamenti del nostro rating dall’Agenzia Standard & Poor’s incassiamo la prima promozione, l’economia cresce ad un ritmo dell’1,8% avvicinandosi alla crescita delle altre economie europee, il nostro export ha superato quello francese crescendo al doppio del loro ritmo (8% contro 4) ed il governo dovrebbe centrare il target di deficit al 2,1% del Pil.
Dato negativo rimane quello invece della produttività totale che, come evidenziato dall’Ocse, dal 2005 è crollata del 3%. Quest’ultimo elemento porta ad aprire una riflessione più ampia che interessa la debolezza della ripresa economica globale di questo ciclo rispetto a quelli precedenti.
Dopo il tracollo del 2008 la crescita complessiva del Pil reale degli Stati Uniti, il cui ciclo espansivo è arrivato al suo 34esimo trimestre di sviluppo, è stata di soli 18 punti percentuali, un dato che rappresenta meno del 50% della crescita media avvenuta in tutte le fasi post recessive a partire dal 1957. Parallelamente la crescita della produttività in questa fase espansiva è risultata essere poco più della metà di quella della media delle riprese precedenti. Come si può aumentare la produttività? Investendo.
La storia di lungo periodo degli Usa dice però il contrario. Gli investimenti pubblici negli anni ‘50 del secolo scorso ammontavano a 7 punti del Pil annuo. Il loro lento ed inesorabile declino li vede ora a soli 3 punti percentuali della ricchezza prodotta annualmente. Stesso discorso vale per l’Europa, infatti dal 2010 si è passati da un valore di investimenti del 5,2% del Pil ad uno del 3,5% attuale.
Analizzando i dati pubblicati dal World Economic Forum all’inizio del 2017 il crollo degli stessi nella Ue dal 2008 ammonta a 261 mld di euro: 109 mld in meno provenienti dal mondo corporate, 118 da quello dei privati e 34 mld dagli investimenti governativi. Siamo passati da un Pil reale della Ue di 12.952 mld del 2008 a 13.291 di fine 2015 e a compensare il crollo degli investimenti, riportando il valore del Pil sette anni dopo ad un livello superiore a quello precedente la crisi, sono stati i consumi governativi aumentati di 159 mld, i consumi privati cresciuti di 175 mld e le esportazioni nette incrementatesi di 268 mld.
Le ragioni per capire i motivi di questo crollo degli investimenti sono molteplici e vanno sicuramente ricercate nell’invecchiamento della popolazione, nel deprezzamento più rapido dei beni capitali e della loro obsolescenza, nel cambio del mix delle attività economiche fino a vincoli finanziari molto più stretti ed in ultima analisi ad un atteggiamento miope sull’uso delle risorse. Ma aumentare la produttività e conseguentemente aumentare gli investimenti è però di importanza vitale in quanto è l’unico elemento in grado di contrastare il declino demografico della fascia della popolazione dei 25/50 enni. Senza un recupero degli investimenti avremo lunghi cicli economici espansivi come quello attuale ma dalla crescita estremamente debole e contenuta. Per porre rimedio al problema occorre in primo luogo investire in infrastrutture costruendo ed ammodernando strade, ferrovie, porti, aeroporti, il settore delle telecomunicazioni e sviluppando ulteriormente nuove fonti energetiche.
McKinsey Global Institute stima che per rimettersi in pari con l’agenda della crescita servano oltre 49.000 mld di dollari di investimenti nel settore da qui al 2030 andando ad attingere a risorse potenziali per oltre 100.000 mld nel periodo medesimo disponibili presso investitori istituzionali, banche e project financing. Dopo gli anni dell’austerità, una politica fiscale espansiva rappresenta il primo stimolo per gli investimenti non a caso, Mario Draghi, ha richiesto interventi di politica fiscale prima per il consolidamento dei conti e poi per stimolare la crescita in ben 58 su 59 conferenze stampa sulla politica monetaria tenute dal suo insediamento ad oggi.