Nel 2017 si è sentito molto parlare dei Pir, o Piani Individuali di Risparmio, per la novità e per il successo che hanno riscontrato, ammontando la raccolta del primo anno a quasi 12 miliardi di euro. Sono un nuovo strumento di investimento istituito per portare liquidità alle piccole e medie imprese italiane, la novità dell’anno in ambito finanziario soprattutto per l’esenzione fiscale dalla tassazione sui guadagni, di cui si può godere se si mantiene il piano per almeno 5 anni (ossia non si paga il 26% sul capital gain).
Si tratta ad oggi di fondi comuni di investimento, che le Banche sono ben liete di proporre come versamento unico o più facilmente sotto forma di piano di accumulo perché hanno molti vantaggi, innanzitutto per il loro guadagno e poi per mantenere nel tempo i clienti. Ma vediamo davvero i pro e i contro. Quanto costano? Le commissioni di gestione sono in media un 1,4% annuo. Se il fondo facesse un +5% annuo, il risparmio fiscale ammonterebbe a 1,3% (risparmio il 26% sul rendimento del 5%). Significa che i due effetti si sono già pareggiati, quindi i risparmiatori si ritrovano ad avere contribuito alla creazione di ricchezza e di posti lavoro, ma intanto i punti deboli di questo meccanismo rimangono sul loro groppone, perché si ritrovano vincolati per 5 anni, senza la possibilità di diversificare o di cambiare, visto che non si può avere più di un Pir alla volta e per di più con un rischio concentrato in azioni e obbligazioni solo italiane e non tutte facilmente valutabili.
E la prossima invenzione è già dietro l’angolo: si tratta dei Piani Pensionistici Europei, per i quali è già uscita una regolamentazione a livello comunitario e che dovrebbero decollare nel 2019. Staremo a vedere cosa inventano.