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Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’Impero russo, e in misura minore anche l’Occidente, furono pervasi da un’ondata di correnti filosofico-religiose ispirate al misticismo, all’irrazionalismo e allo spiritualismo. I Romanov, che proclamavano l’origine celeste e divina del loro potere, favorirono la diffusione di queste sette. Il più celebre dei santoni dell’epoca (tra loro anche Gurdjeff) fu, come é noto, Rasputin, potentissimo uomo della corte zarista. Queste credenze e superstizioni esoteriche traevano origine anche dalle culture sciamaniche delle regioni orientali del vecchio impero, e, risalendo indietro nel tempo, dall’Orda d’Oro e dalla dominazione mongola delle Russie. Quattro anni fa una splendida mostra a Firenze a Palazzo Strozzi, L’avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente. Kandinskij, Malevic, Filonov, Goncarova ha ricostruito quel periodo, sviluppando mirabilmente il riflesso che il fenomeno ebbe sugli artisti e sulle avanguardie russe. Personalmente ritengo che quando il misticismo e lo spiritualismo restano confinati all’interno della sfera dei valori personali, o rimangono mere espressioni artistiche, possono legittimamente essere oggetto di appassionate discussioni tra galleristi, curatori, filosofi e uomini di cultura. Quando però incidono anche sulla politica, a volte contribuiscono a creare i peggiori disastri. Credo che uno dei grandi meriti dei Bolscevichi, oltre ovviamente al ritiro del loro Paese dal carnaio della Prima Guerra mondiale, all’abbattimento del potere decrepito e criminale degli zar e alla distruzione dei regimi nazifascisti 28 anni dopo, sia stato proprio l’aver fatto tabula-rasa di gran parte del ciarpame oscurantista pseudo-filosofico e religioso che ammorbava la Russia di inizio ‘900. Altre cose ai Bolscevichi riuscirono molto meno bene, ma questa é un’altra storia.
Naturalmente, la figura di Kandinskij è più complessa, e non può in alcun modo essere ridotta a quella di un guru o di un santone.
Perciò trovo abbastanza deludente che la sua opera, nella mostra in corso in questi mesi a Palazzo Magnani, sia letta solo come l’elaborazione personale e ‘spirituale’ di un genio apparentemente avulso dal proprio tempo, e rimanga in lontananza, in sottofondo, la sua relazione con i grandi e tragici avvenimenti di quel periodo. Kandinskij, rientrato nella madre patria Russia allo scoppio della prima guerra mondiale, lavorò per il potere bolscevico affermatosi dopo la presa del Palazzo d’Inverno nel novembre 1917. Svolse soprattutto lavori amministrativi in ambito museale, ma alla fine del 1921 fu costretto a lasciare il Paese. Venne di fatto licenziato, e, come usava all’epoca, il suo siluramento fu anticipato da giudizi durissimi pubblicati sui giornali legati al regime. “E’ un metafisico, un individualista – scrissero di lui – un anziano benestante che, benché mosso da utopie di rinnovamento sociale, non si è mai concretamente impegnato per la Rivoluzione: è un tirapiedi della borghesia”. La rottura di tutti i codici praticata dalle avanguardie artistiche a partire dalla seconda metà del XIX secolo, in Russia come nel resto d’Europa, non è una categoria dello spirito.E’ un rifiuto radicale di ogni ordine costituito e a ogni livello, politico, sociale, artistico e culturale, la proclamazione di un’alteritá assoluta rispetto a tutto ciò che il potere e le istituzioni di quel tempo riconoscono, legittimano e fanno proprio. Kandinskij fu uno dei primi a soccombere, nel furioso scontro che si consumò all’ombra delle bandiere della Rivoluzione tra astrattisti, suprematisti e costruttivisti. Il sogno gigantesco e folle di creare l’Uomo Nuovo anche attraverso l’arte infiammò la Russia bolscevica e poi staliniana, intrecciandosi strettamente con le vicende politiche del Paese dei Soviet. D’altro canto, la forte connotazione sociale e politica del lavoro di Kandinskij non si esaurì con l’allontanamento dall’Unione Sovietica, ma proseguì in Germania, dove fin dal 1922 l’artista collaborò con il Bahuaus. Davvero centrato è, al riguardo, l’approccio scelto nei mesi scorsi dal Ravenna Festival, che ha intitolato lo straordinario programma del 2017, dedicato alla cultura russa ed ex-sovietica, Il rumore del tempo, un omaggio al poeta Osip Mandel’stam morto alla fine degli anni ’30 in un gulag staliniano. Nello splendido catalogo del festival compare anche un acuto saggio di Tzetan Todorov, intitolato Avanguardie artistiche e dittature totalitarie. Scrive Todorov: “L’opposizione tra i costruttivisti e le avanguardie precedenti non è di natura politica: i sostenitori dell’una e delle altre salutano con entusiasmo la rivoluzione in corso. Concerne invece il rapporto che si stabilisce tra l’opera e il contesto sociale (…) Kandinskij o Malevic “pongono l’arte più in alto della vita e vogliono restituire la vita in forma di arte”. Il costruttivismo, al contrario, “colloca la vita più in alto dell’arte” e privilegia la funzione a detrimento della forma”. Per capire o interpretare le avanguardie russe bisogna partire da qui.