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“Ognuno improvvisa pubblicamente una ragione cosmica che renda insostituibile la sua presenza nella miserabile plancia di comando, nella stanza dei bottoni”. Se c’è una cosa che manca terribilmente alle organizzazioni di rappresentanza, e a maggior ragione a quelle che si rifanno ai valori e alla storia della sinistra, sono figure come Bruno Trentin. In generale, tutte le grandi associazioni di rappresentanza – quelle dei lavoratori e delle imprese, i partiti, la Chiesa, ecc. – sono oggi più o meno in crisi: le cause sono complesse e andrebbero analizzate caso per caso. I “Diari 1988-1994” di Bruno Trentin, dai quali è tratto il corsivo con il quale inizia questo pezzo, sono la testimonianza dell’esperienza di un leader alla guida del più importante sindacato italiano ed europeo, la Cgil, in anni politicamente assai tempestosi. Scritti come appunti personali, e dunque non destinati alla pubblicazione, contengono giudizi molto duri (pesantissimi quelli su Fausto Bertinotti) sui principali protagonisti della vita politica e sindacale degli ultimi 30 anni. La figura di Trentin, dirigente anomalo che fu portato ai vertici della Cgil, all’Ufficio Studi, da Giuseppe Di Vittorio, si staglia come quella di un gigante in mezzo a una marea di nani. Colpisce, in anni cinici e di disincanto come quelli che viviamo, la grande tensione morale del sindacalista che vive come una liberazione, ma anche come una tragedia personale e collettiva, gli eventi grandiosi e drammatici che vedono susseguirsi nell’arco di pochi mesi il crollo del Muro di Berlino, il massacro di Tien An Men e la fine dell’Unione Sovietica. L’analisi di Trentin, che tra una riunione di segreteria e l’altra, i viaggi all’estero, la proclamazione di uno sciopero generale e un incontro-fiume con i ministri della Dc e del Psi dell’epoca, rilegge i pensatori della Rivoluzione Francese e dell’Illuminismo, è spietata. Trentin vede una dicotomia insanabile tra l’aspirazione libertaria del comunismo delle origini, di Owen e del giovane Marx da un lato, e quello che nel Novecento, privilegiando la redistribuzione del reddito attraverso la conquista del potere politico e la creazione dello Stato Socialista, ha preso il nome di marxismo-leninismo. E’ questa la contraddizione che un pezzo tutt’altro che marginale della sinistra italiana ancora oggi non riesce a superare. Per Trentin invece la libertà viene sempre prima, e non ha senso vagheggiare il Sol dell’Avvenire per realizzare una società di uguali che garantisca a tutti la felicità. Compito di chi fa politica e sindacato (il sindacato dei diritti, termine di cui oggi probabilmente si abusa) è promuovere un patto di solidarietà tra soggetti diversi, forti e deboli, per dare a tutti qui e ora la possibilità di realizzarsi, nell’uguaglianza delle opportunità.
Le idee di Bruno Trentin sono sicuramente debitrici anche del pensiero liberale e dell’esperienza del padre Silvio. Esule in Francia e storico fondatore di Giustizia e Libertà, morto agli inizi del 1944 poche settimane dopo essere uscito dal carcere, Silvio Trentin fu uno dei pochissimi docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al Fascismo. Si avverte inconfondibilmente la sua stessa tensione morale nelle pagine dei “Diari”.