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Dispositivi intelligenti di ogni fattezza e dimensione sono ormai all’ordine del giorno. Se sono in grado di comunicare, essi diventano parte dell’Internet of Things (IoT), un mondo affascinante ma anche caratterizzato da problemi molto complessi.
I dispositivi IoT sono tipicamente wireless e alimentati con batterie difficilmente sostituibili. Elaborazione e trasmissione di dati costano molto in termini energetici. Questo significa che algoritmi e protocolli devono essere molto efficienti. E’ fondamentale minimizzare i messaggi cosiddetti di controllo, che consentono ai dispositivi di configurarsi e coordinarsi, ma che non contengono informazioni utili per le applicazioni.
C’è poi la questione della sicurezza. Non si possono utilizzare i protocolli delle reti tradizionali. Ad esempio, a TLS si preferisce la versione più leggera chiamata DTLS. Alcuni dispositivi però hanno pochissima memoria e quindi possono gestire solo poche sessioni DTLS contemporaneamente. In questi casi si preferisce un approccio di tipo object security, che riguarda i singoli messaggi anziché gli endpoint. Servono poi algoritmi crittografici sicuri ma allo stesso tempo leggeri in termini di sforzo computazionale a cui si devono sottoporre i dispositivi.
Scott Jenson, leader del progetto Physical Web di Google, ha proposto una classificazione delle funzionalità dei sistemi IoT che dovrebbe semplificare il lavoro di chi li progetta. Anzitutto il setup del sistema, che può essere completamente automatico oppure controllato in parte da un operatore. Poi la possibilità di visualizzare una mappa semantica del sistema: quali dispositivi sono in funzione, cosa fanno, come sono organizzati in rete. Terzo punto: uno standard per la descrizione delle capacità (hardware e software) dei dispositivi. Infine un approccio gerarchico, dove la ripartizione dei compiti avviene in base alle capacità dei singoli dispositivi.