di Lara Ferrari
Quanti e quali dati raccolgono le aziende? Cosa sanno dei loro competitor? Conoscono i propri punti di forza e debolezza? Come usano queste informazioni? Queste alcune delle domande alle quali ha cercato risposta un’indagine condotta dall’agenzia di marketing e comunicazione Kaiti expansion, su un campione di 100 imprese delle province di Reggio Emilia, Parma e Modena. I risultati – presentati lo scorso ottobre in un convegno patrocinato da Unioncamere Emilia-Romagna, Dipartimento di Comunicazione ed Economia di UniMoRe, Provincia, Comune di Reggio Emilia e principali associazioni di categoria – rivelano un quadro con un tratto paradossale: nonostante la consapevolezza d’impresa sia per più dei 2/3 degli intervistati un elemento chiave di ogni strategia per competere sulla scena globale, altrettanti dichiarano di non averne a sufficienza e solo 1/10 di loro investe risorse adeguate per dati strutturati e aggiornati. In un’Aula Magna gremita, Guido Caselli (direttore Ufficio Studi Unioncamere Emilia-Romagna), Giovanna Galli (docente di Fondamenti di Marketing Unimore) e Davide Caiti (presidente Kaiti Expansion) si sono confrontati su questi risultati, mettendo al centro del dibattito l’approccio scientifico al marketing, come strumento per ridurre i rischi e rendere efficace ogni processo decisionale.
Prima, un check
A che punto è la crisi? quali strategie di reazione hanno prodotto le imprese? quali sono destinate al successo? secondo guido caselli serve un nuovo modello: «non più un’economia gerarchica ma un’economia partecipativa»
È Caselli ad aprire i lavori del convegno: «Nelle principali economie occidentali vi è una generale incertezza sui tempi e sulla velocità della ripresa. Emergono le difficoltà nell’affrontare mercati più ampi e di accedere al capitale di rischio, il tutto in un contesto di crisi di managerialità nel ricambio generazionale e nell’approccio ai nuovi mercati». Un’efficace metafora mostra l’Italia come un Paese che nel periodo 2011-2014, mentre l’India viaggia in Ferrari a 345 km/h orari e il mondo viaggia in Suv a 170 km/h, viaggia in bicicletta a 20 km/h. Anche se ci sono alcune realtà locali che rivelano una marcia in più come Reggio Emilia con i suoi 51 km/h. «Reggio Emilia guadagna quote di mercato in 61 dei 190 Paesi verso i quali esporta. Esistono anche punti di forza, quindi – spiega Caselli – La spinta imprenditoriale, una diffusa cultura di produzione artigianale, un sistema universitario di qualità… La ripresa economica premierà i comportamenti delle aziende volti alla crescita dimensionale e alla presenza sistematica sui mercati esteri». Ma come usciremo dal tunnel? «Occorre creare nuove imprese e nuova occupazione. Serve un nuovo modello: non più un’economia gerarchica, con le grandi imprese che trainano le piccole, ma un’economia partecipativa, di comunità, una rete in cui persone e imprese devono entrare con le proprie ambizioni personali – che per le aziende può essere quella del massimo profitto – e, attraverso la loro realizzazione, contribuire al raggiungimento di una visione collettiva capace di mobilitare tutti i membri. Occorre puntare sul capitale distintivo di tecniche e conoscenze difficilmente imitabile, sulle caratteristiche uniche che determinano un vantaggio, spostando l’asse competitivo su terreni diversi dalla sola diminuzione dei costi o dall’inseguimento dei concorrenti sull’innovazione».
Il marketing è la soluzione?
Le ricerche di mercato non sono infallibili, nè forniscono soluzioni prêt-à-porter, ma sono uno strumento affidabile per ridurre i rischi e per rendere più efficace il processo decisionale
«Molti vedono il marketing solo nei suoi aspetti tattici, molta pubblicità e promozione vendite. Ma è solo la punta dell’iceberg. Il marketing strategico è meno evidente, ma più potente». L’intervento della professoressa Giovanna Galli prende le mosse con una riflessione sui risultati della ricerca condotta da Kaiti expansion con un questionario somministrato ai responsabili marketing o comunicazione delle aziende per misurare, in questo ambito, l’efficacia di investimenti e attività rispetto agli obiettivi. «Le imprese intervistate – ha raccontato Davide Caiti – sembrano commettere l’errore fatale di confondere la comunicazione con il marketing. Se da un lato dichiarano a stragrande maggioranza l’importanza di conoscere domanda, concorrenza, clienti e propri punti di forza e debolezza, dall’altro solo nel 19% dei casi investono per ottenere dati strutturati. E mentre non hanno una voce di bilancio dedicata alle indagini di mercato, hanno però al 97% un sito internet e partecipano a fiere di settore ed eventi per il 70%». Cosa significa tutto questo? Proviamo a immaginare l’approccio di un’azienda del settore metalmeccanico rispetto alla concorrenza: l’orizzonte è quello della sua concorrenza storica (quelli che producono da sempre un prodotto paragonabile) oppure include anche tutti quei prodotti che, pur basandosi su tecnologie diverse, possono soddisfare esigenze simili? Per lo più, quell’azienda considera sufficiente la partecipazione a fiere ed eventi di settore per farsi un’idea. Un altro esempio? Un’azienda di abbigliamento che esporti in Russia, per declinerà le collezioni per il nuovo mercato considera sufficienti le informazioni che le derivano dal proprio distributore. «Niente di tutto ciò è una ricerca di mercato nel senso scientifico del termine e – questo il punto, secondo la Galli – non garantisce una conoscenza e una consapevolezza del proprio ruolo nel mercato adeguata a competere in uno scenario economico come quello attuale».
Chi domanda, comanda
Le aziende hanno dalla loro il vantaggio di poter conoscere i dati: tocca a loro saperli analizzare per inserirsi al meglio in mercati sempre più competitivi
Le esperienze di approccio scientifico al marketing aziendale, certo, non mancano. Durante il convegno sono state presentate tre case histories: quelle di Peter Zehentleitner, proprietario di Trenkwalder, Roberto Abati, volontario e responsabile marketing di Grade Onlus e Daniela Fabbi, responsabile comunicazione e marketing Cir Food. Quest’ultima, in particolare, ha ribadito l’importanza di attingere a una mole sempre più vasta di informazioni, perché «chi domanda, comanda. Dunque chi sta da questa parte, come noi, attraverso lo strumento dei dati si inserisce meglio sul mercato». Ragionamenti questi che sono gli stessi di un altro caso famoso nella letteratura marketing: Xerox ha introdotto la prima fotocopiatrice da ufficio a carta comune 50 anni fa. In inglese il suo nome divenne sinonimo di “fotocopie” e negli anni sconfisse uno dopo gli altri i concorrenti. A metà 2001 il prezzo delle azioni era crollato da quasi 70 dollari nel 1999 a meno di 5 dollari. In un recente bilancio di esercizio si legge: “Un tempo, documentare le comunicazioni significava metterle su carta, metterle nero su bianco. Oggi, in genere le comunicazioni sono scansite, inviate, ricercate, archiviate, fuse e personalizzate, spesso a colori.La trasformazione di Xerox è iniziata con una nuova attenzione ai clienti. Prima di sviluppare nuovi prodotti, i ricercatori Xerox tenevano interminabili focus group sui clenti. La nuova Xerox ritiene che comprendere i clienti sia importante tanto quanto comprendere la tecnologia”. Ma come possiamo gestire le notizie che ci provengono da più fonti? «Insisto sulla necessità di possedere tante informazioni, per essere consapevoli di quello che si va a proporre – ha affermato Davide Caiti – Il messaggio è: cerchiamo di acquisirne tante, perché non possiamo più permetterci di navigare a vista e, quel che è peggio, rimanere indietro. Sono tante? Bene, usiamole. E capiamo come organizzarle. In tutto questo, l’imprenditore continua a essere fondamentale e insostituibile. A lui spettano le decisioni finali». E le scelte si possono fare in maniera consapevole solo se si è perfettamente consci del mercato in cui si opera, e si cerca di lasciare il segno.