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Una delle questioni più delicate in qualsiasi azienda è l’armonia delle relazioni interne, in particolare quelle tra titolari e dipendenti. Sociologi e psicologi del lavoro tentano di spiegare come preservare ruoli e gerarchie senza raffreddare i rapporti fra i soggetti interessati: costruire una relazione funzionale di questo genere richiede impegno e consapevolezza di sé, e la carenza di questi aspetti dà luogo a manifestazioni di due generi estremi.

1_ Formalità. Si mantiene un rapporto freddo e distaccato in cui il collaboratore non si sente parte attiva del processo aziendale, ma un numero sostituibile in ogni momento. Una relazione di questo tipo porta ad avere un collaboratore poco motivato e orientato esclusivamente al raggiungimento dello stipendio a fine mese, del genere minimo sforzo massima resa.

2_ Confidenza. Si costruisce un rapporto amicale e di parità, in cui è facile confondere la confidenza con la parità di ruolo. La conseguenza è lo stallo, se non addirittura il boicottaggio inconscio da parte del collaboratore, quando nella sua mente s’insinua l’idea di poter essere un imprenditore migliore dell’amico-titolare.

Quest’ultima dinamica è più diffusa tra imprenditori giovani, con poca esperienza, ma quasi nessuno è immune dalla tentazione di confidarsi con un collaboratore ritenuto particolarmente professionale e affidabile. Si comincia parlando delle difficoltà che l’azienda incontra oppure condividendo l’intenzione di incontrare un cliente o un fornitore, e si costruisce un’amicalità che si trasforma in confidenza decontestualizzata e poco sana. Si crea alleanza senza gerarchia.

C’è un caso esemplare che mi è capitato di incontrare lungo la mia strada di consulente. La titolare di tre negozi di abbigliamento nel milanese aveva assunto a tempo indeterminato un’assistente alle vendite, a suo avviso abile con i clienti, onesta e autonoma. I primi tempi di questa collaborazione furono idilliaci: ricordo la titolare inebriarsi di soddisfazione e orgoglio parlando della sua collega in gamba. Arrivarono ad una confidenza tale per cui, dopo circa sette mesi, la collaboratrice cominciò a esporre le proprie disgrazie familiari con la titolare e (ahinoi!) di fronte alle clienti del negozio. La titolare tentò con diplomazia di farla riflettere sul comportamento poco professionale, ma come risposta ebbe solo accuse sulla sua scarsa presenza in negozio e giudizi sulla sua vita privata. Ovviamente la vicenda si concluse con un licenziamento e una causa.

La difficoltà di questa imprenditrice è racchiusa in un antico stereotipo, che dentro di lei (come in molti altri) inconsciamente predomina: “L’imprenditore è un farabutto”. Nella sua fantasia la nostra protagonista ha ragionato più o meno così: “Non voglio essere considerata un farabutto, per cui mi comporto in modo opposto, così da essere riconosciuta dai miei collaboratori come una persona onesta pur essendo un’imprenditrice”. Ma ben presto la relazione instaurata su questa base, anche se apparentemente coinvolgente e positiva, si è rivelata per quello che era: disfunzionale. Non solo i giovani imprenditori vivono il timore di essere considerati senza scrupoli, ma costruire un rapporto professionale di fiducia vuol dire rispettare i ruoli aziendali e la persona che è oltre tali ruoli.