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di Stefano Campani

Camillo Prampolini, l’uomo che dà il nome alla più bella piazza di Reggio Emilia, non è stato solo uno dei padri del sistema cooperativo italiano. È stato uno dei più grandi leader della sinistra in Italia dal 1848 a oggi e si può anche considerare uno dei padri della Repubblica Italiana. Non l’ha vista nascere, ma le sue idee hanno ispirato la Costituzione che rappresenta il nerbo del nostro Paese. Domanda: perché Prampolini è stato un grande leader supportato nelle nostre terre da un enorme consenso popolare? Risposta: perché, a differenza dei politici che cercano di conquistare i voti degli elettori con proclami e ideali spesso astratti (e magari a volte, celandosi dietro il paravento dei diritti umani, nascondono in casa pacchi di euro qatarioti, a milionate), Prampolini seppe essere utile al popolo, soggetto indefinito e non meglio specificato, sempre tirato per la giacca di qua e di là dagli agitatori di destra e di sinistra. Ad esempio migliorò le condizioni di vita di migliaia di reggiani creando le cooperative di consumo, di credito e di produzione, ovvero realtà che diedero alle persone solitamente poverissime di quegli anni la possibilità di avere un lavoro e di disporre di beni e servizi di prima necessità a condizioni più convenienti di quelle offerte dal mercato, altra creatura mitologica dagli incerti confini.
Purtroppo Prampolini è stato spesso ridotto a una specie di santino, a innocuo utopista permeato di idealismo socialista e religiosità cristiana. In realtà fu un combattente, un uomo che non ebbe paura di affrontare i marosi dell’epoca, vale a dire i fascisti, che alla fine lo costrinsero al silenzio, e gli stessi comunisti, che lo attaccarono a lungo e duramente (il complimento più carino che rivolgevano ai riformisti dell’epoca era “guardie bianche dello zar”), per altro pienamente contraccambiati dal suo spirito pugnace.
Prampolini fu uno dei più convinti oppositori non solo della scissione di Livorno, che nel 1921 portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia, ma contrastò anche la deriva estremistica dei Socialisti dei primi anni ‘20, che erano un’organizzazione politica massimalista. Memorabile fu un suo editoriale del 1924, intitolato “Fascismo rosso”, in cui accusò i Comunisti italiani di settarismo e subalternità a Mosca, oltre che di avere lasciato solo Giacomo Matteotti. Grazie a Prampolini e ai dirigenti dell’allora Camera del Lavoro e della Federacoop, Reggio Emilia, fino all’avvento violento del fascismo, restò una provincia socialista e riformista.
Nel dopoguerra, e fino a non tanto tempo fa, la diffidenza dei comunisti italiani ha sostanzialmente regalato il suo straordinario lascito di scritti e ideali al Partito Socialdemocratico e al Partito Socialista, che invece gli hanno spesso meritoriamente tributato i dovuti riconoscimenti.
Ecco perché Prampolini, insieme ad altri giganti del calibro di Fenoglio, Carlo Rosselli, Lussu, Gobetti e pochi altri, conserva un posticino nel mio piccolo, personale Pantheon.