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Il contagio dell’emozione

Di 24/03/2013Marzo 15th, 2023No Comments

Per definizione, comunicazione e advertising devono stare al passo con i tempi, sintonizzandosi con l’immaginario e i linguaggi della società cui si rivolgono. Fino agli anni ’80, la pubblicità raccontava il prodotto: il messaggio era finalizzato alla descrizione dei vantaggi e diceva al consumatore cosa fare, convincendolo che, per esempio, un certo fustino di detersivo non si scambia con niente al mondo. Gli anni ’90 sono stati invece segnati dall’avvento del brand, che in certi casi è diventato più importante del prodotto stesso. Ricordate le pubblicità dei super belli, del sessismo all’ennesima potenza e dei messaggi iperbolici distanti dalla realtà? Sul lungo periodo, questo linguaggio si è però ritorto contro chi l’ha creato: la pubblicità in quanto tale è diventata un ospite sgradito – da far sloggiare con la forza del telecomando cambiando canale – e ha allontanato il consumatore dall’azienda, contribuendo a generare e accrescere un rigetto sempre più diffuso. A quel punto, per i pubblicitari il cambiamento è diventata una necessità, in parte dettata dalle naturali esigenze di adeguamento che dicevamo ma, a quanto pare, dettata anche dal bisogno di superare quella che potremmo definire una crisi dell’advertising. Si trattava di riconquistare un consumatore divenuto sempre più critico e smaliziato.

Così, con gli anni Duemila siamo entrati in quella che alcuni chiamano l’era della pubblicità 3.0. Oggi gli spot di successo sono quelli in cui il consumatore può identificarsi, riconoscendo le sue scelte, la sua quotidianità e le sue abitudini. Il prodotto o la marca stanno sullo sfondo e al limite appaiono alla fine dello spot. Il faro è puntato sui personaggi, capaci di trasmettere emozioni e stati d’animo. La regola aurea di una pubblicità 3.0 efficace? Empatia. Il consumatore deve potersi riconoscere nel protagonista dello spot, sentirsi coinvolto e identificarsi al punto da acquistare un prodotto, e la pubblicità è tanto più efficace quanto più questo meccanismo è concreto, fuor di metafora. Da lungo tempo Mastercard, ad esempio, adotta questa strategia, capace di contagiare sempre più aziende.

Penso per esempio allo spot della campagna Milioni di attimi di Enel, in cui una donna si racconta durante la gravidanza. È una persona comune, non la testimonial di turno che recita slogan imparati a memoria e privi di valore. Lei veicola significati veri, immagini reali, sentimenti vissuti, con cui ogni donna può identificarsi. La marca appare solo alla fine dello spot, come una firma in calce. Un modo nuovo di approcciare il consumatore, che può servire anche quando un brand ha problemi di credibilità: Costa Crociere dopo il disastro del Giglio ha cambiato totalmente modo di proporsi. Per comunicare sicurezza, nell’ultima serie di spot della compagnia di crociere recitano veri passeggeri e membri dell’equipaggio che invitano gli spettatori a condividere sorrisi, abbracci e momenti di relax. Poi, ovviamente, c’è lo storytelling, spesso affiancato a una buona dose di ironia. È il caso della storia d’Italia nella campagna Tim, o quello di chi arriva ultimo per l’aperitivo Campari delle sette. E quando questi ingredienti sono ben miscelati insieme, allora si fa davvero il botto: mi riferisco al nuovo spot CheBanca! in cui si racconta in modo semplice ma avvincente, la storia d’amore tra due giovani, il cui destino era già scritto sul loro conto corrente. Così l’emozione può anche diventare virale e, grazie al passaparola, contagiare sempre più consumatori. Una prova? Bene: quanti di questi spot non avete mai visto neanche di sfuggita?