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L’Unione Europea ha decretato il 2012 come l’anno del confronto generazionale, progettando e finanziando una serie di eventi e approfondimenti sulle modalità concrete realmente implementabili per impostare e facilitare il confronto tra le generazioni.

Un approccio decisamente ottimistico: porre l’attenzione su una tipologia particolare di confronto, quello intergenerazionale, sembra dare per scontato che questo sia in generale una pratica diffusa, e che meriti di essere potenziata solo in alcuni specifici contesti. Ecco, dal mio osservatorio credo invece che si debbano spendere due righe di riflessione sul concetto generale di confronto: la sensazione infatti è che in realtà le persone tendano a non confrontarsi, preferendo sempre più una “chiusura relazionale” certamente poco fertile ma comprensibile e giustificata, dato il clima di incertezza che caratterizza i nostri tempi. Credo che la vera ricchezza di un popolo sia la capacità di confrontarsi rispettando e accogliendo le idee e i punti di vista dell’altro. Non ricordo a chi appartenga, ma mi torna in mente una pensiero che considero tanto semplice quanto profondo: se ci scambiamo un oggetto, ognuno di noi si porta a casa un oggetto, ma se ci scambiamo un’idea ognuno di noi si porta a casa due idee, la propria e quella dell’altro. Ecco cosa significa confronto: aggiungere, ampliare, accogliere, crescere. Il confronto insomma, conviene: ma allora, cos’è che lo impedisce o lo rende così difficile da praticare nella quotidianità?

Se stilassimo una classifica troveremmo certamente sul podio la paura del giudizio dell’altro, il timore di sentirsi inadeguati, la necessità di giustificarsi per qualcosa che non quadra, ma anche il disinteresse e il poco rispetto verso l’altro. Siamo esseri umani, perciò possiamo azzardare che la risposta sia ancora più semplice: non ci apriamo al confronto perchè ci aspettiamo che dall’altra parte giunga qualcosa di negativo o demotivante, anziché qualcosa di positivo e di motivante. Molte volte ci sarà capitato di chiedere a qualcuno “Come stai? Come ti senti?” e ricevere in risposta una sfilza di problematiche personali, professionali (o entrambe nella peggiore delle ipotesi); e se il nostro interlocutore ha avuto esperienze poco piacevoli certamente ce le avrà raccontate con dovizia di particolari, aggiungendo negatività a negatività. È raro sentirsi rispondere in modo gioioso “Va tutto bene”, “Non potrebbe andare meglio”, il tutto magari corroborato da racconti di episodi positivi. Ecco allora che scatta il nostro sano egoismo a proteggerci: riteniamo che non sia utile sentirci scaricare addosso anche le difficoltà degli altri, quindi preferiamo evitare il confronto.

Ma c’è rimedio perchè il buon esempio potrebbe venire da noi: impariamo a relazionarci sulla base di sensazioni positive, raccontando episodi interessanti e divertenti, senza riversare sull’altro i nostri problemi e le nostre difficoltà. Non si tratta di fingere che non esistano: abbiamo la libertà di scegliere tra diffondere serenità e diffondere negatività, facciamolo! Succede spesso e in molte situazioni: colleghi che discutono dei difetti del capo e non delle sue qualità, capi che si confrontano sui punti deboli dei loro team e non sui punti di forza, ma anche coniugi che discutono sui problemi familiari e non sulla bellezza della famiglia, e cosi via. Ogni cosa può essere guardata con positività oppure con negatività: ricordiamoci che siamo sempre liberi di scegliere dove indirizzare la nostra attenzione, e la positività ha l’indiscutibile vantaggio di contribuire a creare un confronto sereno, non giudicante ed aperto all’altro.

La prossima volta che un amico, un conoscente o un collega vi chiedono come state, concentratevi e scegliete di raccontare un aspetto positivo di voi stessi, della vostra vita personale o professionale, diventando generatori e diffusori di serenità e positività. Apprezzerete presto che gli altri faranno lo stesso con voi, rendendo il confronto attraente e motivante.