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Indipendentemente dalle sorti dell’ormai ex rais Muammar Gheddafi, non vi è alcun dubbio che la parabola politica del dittatore sia definitivamente giunta al termine. A Parigi, 63 paesi hanno ufficialmente riconosciuto il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) come il legittimo governo incaricato di guidare il paese in questa delicatissima fase: le ormai familiari scene di esultanza dei ribelli possono essere la premessa della nascita di un nuovo Stato democratico.

Il compito è tutt’altro che facile. L’ostacolo principale è costituito senza dubbio dalla struttura ancora prevalentemente tribale della società libica: oltre 140 clan sono tuttora presenti nel paese, legati da un’intricata serie di rapporti e relazioni, non di rado segnate da decenni di ostilità. è azzardato al momento fare previsioni sul futuro assetto del paese: l’ipotesi più auspicabile è comunque quella di una forte autonomia dei vari centri di potere locali coordinati da un’autorità centrale; quella più temuta invece è quella del failed state, del collasso del sistema statale.

Si tratta di temi estremamente dibattuti in questi giorni nella comunità internazionale e nel nostro paese, che come è noto è il primo partner commerciale di Tripoli ed ha sempre fatto affidamento su una sorta di rapporto privilegiato con Gheddafi.

Va infatti chiarito che le apprensioni italiane (oltre che francesi ed inglesi tanto per citare altri due dei principali sostenitori dell’intervento della Nato) riguardo al destino della Libia, al di là delle motivazioni umanitarie, sono legate a questioni prettamente economiche. Di despoti come Gheddafi è pieno il mondo, ma nessuno di questi si trova a capo di un paese che produce quasi 1,6 milioni di barili di greggio al giorno, con riserve che ammontano ad oltre 44 miliardi di barili (circa il 3% di quelle mondiali; le più abbondanti in Africa secondo le stime) e che sono sostanzialmente ancora tutte da sfruttare. Queste cifre si riferiscono a prima del conflitto ma, al di là dei tempi necessari affinché la produzione possa riprendere a pieno regime (non prima del 2013 secondo gli analisti), è chiaro che tali giacimenti fanno gola praticamente a tutti: Francia e Inghilterra sono state le prime a corteggiare il governo transitorio per garantirsi un posto in prima fila nello sfruttamento. La francese Total può senz’altro beneficiare del vantaggio derivato dal ruolo di primissimo piano giocato dal proprio governo nell’approvazione dell’intervento Nato in favore dei ribelli. La nostra Eni, nonostante potrebbe in qualche modo “pagare” gli iniziali tentennamenti italiani nello “scaricare” Gheddafi, sembra in grado di mantenere la propria posizione privilegiata. La compagnia italiana ha infatti mantenuto un atteggiamento estremamente diplomatico durante tutto il conflitto, e l’accordo raggiunto a Bengasi il 29 agosto scorso con il Cnt sembra un’ulteriore conferma della volontà di mantenere inalterati i rapporti tra le due parti (per inciso: il futuro esecutivo libico avrebbe tutti i diritti di rivedere qualsiasi contratto ed accordo firmato dal governo di Gheddafi). D’altra parte, sostituire l’Eni (perfettamente radicata nel Paese e dotata di tutto il know – how tecnico necessario ad operarvi efficacemente) avrebbe per la Libia un costo altissimo in termini di allungamento dei tempi di riavvio dell’industria petrolifera.

Gli interessi italiani nel paese nordafricano vanno comunque ben al di là della corsa all’oro nero e si estendono in altri settori oltre a quello energetico: l’interscambio commerciale complessivo tra i due paesi relativo al 2010 ammonta infatti a circa 12 miliardi di euro. Un’altra delle maggiori aziende italiane, Finmeccanica, lavora nel paese attraverso le società Selex Sistemi Integrati, Selex Communications, Ansaldo Sts e Agusta Westland. E’ poi presente il gruppo Fiat così come la maggior parte dei principali gruppi edili italiani: Impregilo (che concorre per la gara relativa alla costruzione della nuova autostrada costiera del paese), Bonatti, Garboli-Conicos, Ferretti Group, Maltauro.

Va segnalato il settore dell’impiantistica (Tecnimont, Techint, Edison, Snam Progetti, Ava, Cosmi), quello delle telecomunicazioni con Telecom e, tornando per un momento all’energia, Enel.
Sono questi i nomi più noti che ritornano quando si discute dell’impegno italiano nell’economia libica, tuttavia, il numero di società italiane attive in Libia si aggira secondo la Camera di Commercio italo – libica intorno alle 500, ed è in gran parte costituito da piccole e medie imprese.
A questo proposito, il Ministro per lo Sviluppo Economico Paolo Romani ha recentemente dichiarato che il governo italiano ha intenzione di risarcire gli imprenditori italiani i cui affari sono rimasti paralizzati a causa del conflitto, aggiungendo anche che l’Italia sarà in grado di mantenere le ottime relazioni che ha sempre avuto con la Libia.

Di parere del tutto opposto è però la Camera di Commercio ItalAfrica, piuttosto scettica riguardo alla possibilità di ripristinare i contratti in essere tra le imprese italiane e il governo Gheddafi. A partire dal fatto che non va dimenticato che il rapporto privilegiato tra l’Italia e Gheddafi (sommato alla già citata titubanza iniziale del nostro Governo) gioca ovviamente tutt’altro che a nostro favore nelle relazioni con il governo transitorio. è comunque un dato di fatto che la ripresa dei contatti commerciali tra i due paesi presenta notevoli difficoltà tecniche che vanno al di là della volontà dello stesso governo di Tripoli (e riguardo al danno subito dal Paese durante il conflitto si parla di 100 milioni di euro).

Indubbiamente, il futuro delle imprese italiane in Libia dipenderà in gran parte dall’assistenza che il governo italiano saprà fornire, ma anche dall’abilità che esse stesse avranno nel ritrovare l’orientamento in un paese dal contesto completamente nuovo, tutto ancora da definire. D’altra parte, la fine di un conflitto apre sempre nuovi scenari e possibilità: l’Alto Commissario per la politica estera europea Catherine Ashton ha di recente dichiarato che l’Europa intende sostenere la transizione libica, affermando che le imprese dei paesi europei potranno giocare un ruolo di primo piano nelle future gare d’appalto in Libia. La ricostruzione di un paese è sempre un affare, le opportunità non mancheranno per chi saprà coglierle.