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Quello appena concluso, forse non tutti lo sanno, è stato il “Decennio per l’educazione alla nonviolenza”: abbiamo investito dieci anni, a partire dal 2000, per diffondere la cultura della pace universale. L’iniziativa, partita alla fine degli anni ’90, venne promossa dal coordinamento dei Premi Nobel per la Pace che indicò le linee guida da seguire in questo lodevole, ma forse vano, tentativo di azione (e reazione) non violenta. Come due facce della stessa medaglia infatti, la guerra e la pace hanno continuato ad alternarsi nonostante tutti gli sforzi compiuti per reprimere e superare i conflitti mondiali: durante la Desert Storm, missione anglo-americana per liberare il Kuwait da Saddam, negli anni della Jugoslavia di Milosevic fino all’attuale guerra in Afghanistan, i movimenti pacifisti di tutto il mondo (Emergency e la Croce Rossa, solo per citare i più famosi) si sono schierati a favore di una risoluzione pacifica delle controversie, cercando una mediazione anche politica, che ponesse fine alla dittatura del potere. Sembra banale e forse, vista l’apparente impraticabilità, concetti come quello della pace, la tolleranza, ma anche l’uguaglianza sembrano non mettere radici abbastanza profonde da stabilizzare l’equilibrio politico dei Paesi in perenne conflitto. Oggi sentiamo soffiare i venti rivoluzionari dei popoli del Mediterraneo, ma essi ci costringono ancora una volta a riflettere sulle modalità di intervento, l’uso di armi chimiche e di bombardamenti a tappeto: le morti civili, paradossalmente sacrificate in nome della libertà. Ma ci sono anche gli attivisti, quelli che mettono la loro vita nelle mani della causa per cui combattono (e spesso vivono): episodi come quello dell’omicidio di Vittorio Arrigoni a Gaza, ci impongono di ricordare che esistono persone che hanno scelto cause scomode, ai margini dell’attenzione mediatica e delle luci della ribalta, ma non per questo meno degne di un riconoscimento di valore “a prescindere”. In guerra, si dice, non esistono vincitori né vinti ma la storia conserva la memoria degli eroi, quelli morti per un ideale, forse addirittura un’utopia: Francesco d’Assisi, forse il più amato e conosciuto pacifista italiano ma anche Martin Luther King, Ghandi, Einstein e don Lorenzo Milani, veri e propri estremisti della lotta non violenta. Molto si è fatto – dirà qualcuno- molto altro si deve ancora fare penseranno i pacifisti e la cronaca di questi ultimi anni, ci racconta di eroi scomodi, di cui si parla sempre troppo poco, come Enzo Baldoni, giornalista freelance italiano rapito e ucciso nel 2004 in Iraq e i cui resti sono stati restituiti alla famiglia solo l’anno scorso, a quasi sei anni dalla scomparsa,. Ma esistono anche le battaglie vinte, come il progetto Neve’ Shalom (espressione che significa “Oasi della Pace”) il villaggio cooperativo fondato a Gerusalemme nel 1972 e abitato da una cinquantina di famiglie di Arabi palestinesi ed Ebrei israeliani (fonte PeaceLink) forse l’unico esempio di tolleranza attiva in quei luoghi martoriati dalla guerra, ma sufficiente a dimostrare che una coesistenza pacifica è possibile, purchè accompagnata da una vicendevole tolleranza. Investire (coraggiosamente) nella pace, potrebbe non essere una proposta tanto assurda e non siamo certo noi ad aver sollevato la questione: già gli illuministi scrivevano che il progresso “costringe alla pace” agevolando gli scambi e garantendo flussi culturali e commerciali come condizione necessaria alla sopravvivenza dei sistemi economici. “L’effetto naturale del commercio e’ di portare la pace” affermava Montesquieu nel 1748 ma allora, ripensandoci, la guerra potrebbe essere soltanto una delle strade percorribili; e non è certo la meno tortuosa.