di Federica Imbrogli
Autisti stressati, code interminabili all’uscita dal lavoro, madri in fuga dall’ufficio per andare a recuperare fanciulli “in scadenza” in scuole o strutture per l’infanzia. Calamità naturali che si potrebbero evitare. Così come si potrebbe evitare, poiché assolutamente superflua in certi casi, la presenza in ufficio cinque giorni a settimana, otto ore al giorno. Volendo parlare di orario infatti, in molte realtà professionali (pensiamo ai lavori così detti creativi, intellettuali o legati alle tecnologie come grafici, designer, sviluppatori, video maker, project manager, etc.) il timbro del cartellino è sempre più una ‘palla al piede’ del lavoratore (e dell’impresa). Quante brillanti idee sono nate sotto la doccia o durante una passeggiata col cane…
Il telelavoro è una soluzione dai vantaggi assolutamente bipartisan, che nel nostro Paese fatica purtroppo a prendere piede. Le reticenze sul tema sono legate per lo più alla necessità di “sorvegliare” il lavoro dipendente e alla paura generalizzata che con l’incontro venga a mancare una parte importante dell’attività professionale. La componente “sociale” del lavoro di gruppo è invece un aspetto molto interessante per il quale vengono in nostro aiuto nuovi modi e mezzi per comunicare. Senza estremizzare, si tratterebbe di ridurre a 2 o 3 i giorni di presenza nella sede di lavoro e utilizzare con più disinvoltura VoIP, videoconferenze, software di file sharing, messaggistica istantanea. L’esperienza degli altri paesi europei è positiva.
In Finlandia, Olanda e Svezia più di un lavoratore su quattro lavora in remoto; per Regno Unito, Germania e Danimarca il rapporto è di uno a cinque. Nel 2002 l’Unione Europea ha raggiunto un accordo per la diffusione del telelavoro e nel 2004 in Italia è stato firmato un accordo interconfederale (siglato, tra gli altri, anche da Confindustria e sindacati compatti) che dà la possibilità di lavorare da casa con le stesse garanzie degli altri lavoratori.
Se è vero che le crisi rappresentano il motore del cambiamento, è questo il momento di ripensare, insieme al modello economico, anche il concetto di lavoro. Ammesso che per “flessibilità” si intenda veramente un modello organizzativo in grado di valorizzare chi lavora rendendo più competitive le imprese, e non un altro escamotage per giustificare la precarietà del lavoro. Sogni di mondi possibili…