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La gloriosa storia del Partito Comunista Italiano è lordata, ahimè – lo dico da uomo di sinistra – da alcune macchie indelebili. Una è il sostegno dato nel 1956 all’invasione sovietica dell’Ungheria. L’”aiuto fraterno” dell’Armata Rossa costò ai malcapitati ungheresi nell’immediato circa 3.000 morti ammazzati e la soppressione, per i successivi 34 anni, di qualsiasi spiraglio di democrazia. Oltre a decenni di file per comprare il pane e di miseria egualitaria per tutti, tranne che per i gerarchi di partito e i loro famigli. In quell’occasione Togliatti e il gruppo dirigente del Pci commisero ben più di un errore: commisero un crimine. “Sai – mi sento ribattere ancora oggi – allora il mondo era diviso in due blocchi”. “È vero – rispondo io – il problema è che il Pci aveva scelto di stare col blocco sbagliato”. Le cose andarono un po’ diversamente nel 1968, quando i Sovietici concessero il bis invadendo anche la Cecoslovacchia e stroncando nel sangue la cosiddetta Primavera di Praga. In quel caso il Pci condannò la brutale invasione, ma senza scomporsi più di tanto. Nella sinistra italiana non ci furono mobilitazioni di massa contro i cingoli dei carri sovietici. Va detto che non pochi attivisti del Pci, con motivazioni divergenti ma concordi nel ritenere non più rinviabile una rottura radicale con Mosca, che purtroppo non ci fu, giudicarono troppo blanda la presa di distanza del partito. Alcuni di loro stracciarono la tessera, ci fu anche chi fondò un quotidiano dissidente che è tuttora in edicola, “il Manifesto”. Mi sono sempre chiesto come fosse stato possibile, nel 1956 e nel 1968, che persone sinceramente impegnate contro le ingiustizie, come senz’altro erano in grandissima maggioranza i comunisti italiani dell’epoca, potessero avere preso simili abbagli, scambiando i gerarchi sovietici del tempo, autentici criminali doc, per “compagni che sbagliavano”. Ho sempre avuto il sospetto che questa colpevole sottovalutazione sia avvenuta per un mix di annebbiamento ideologico e opportunismo personale. Alzi la mano chi di noi non tiene famiglia e non è allo stesso tempo abbarbicato tenacemente a idee e illusioni consolatorie che lo aiutano a vivere meglio. Oggi i contesti sono cambiati completamente, il sanguinario ex funzionario del Kgb Putin non è il mummificato Breznev, l’orgoglioso Zelensky non è il remissivo Dubcek, e gli ucraini non hanno nessuna voglia di farsi altri 70 anni di Ruski Mir. Perciò pagano un prezzo altissimo, esemplificato dal male assoluto delle fosse comuni di Bucha, Izyum e Mariupol. Ma mi sembra evidente che il mix già in azione negli anni ’50 e ’60 abbia ancora una certa forza propulsiva.

di Stefano Campani