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L’ultimo inverno sarà ricordato come uno dei più secchi degli ultimi decenni. Per carenze infrastrutturali, dei circa 300 miliardi di metri cubi d’acqua che cadono annualmente nel nostro paese, se ne trattiene solo l’11%.
Dobbiamo abituarci a fare i conti con la siccità?

In questi mesi, le condizioni idrologiche e climatiche nel distretto del fiume Po si sono fatte sempre più critiche. I livelli delle portate sono scesi drasticamente sotto quelli minimi nelle stazioni di registrazione, mentre anche gli affluenti hanno evidenziato decise carenze di risorsa in taluni casi anche a livelli record: Trebbia, Secchia e Reno ai minimi storici dal 1972; Dora Baltea, Adda, Ticino a -75% di portata.
L’inverno 2021-22, si legge in una nota dell’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po, permane infatti come uno dei più caldi e secchi di sempre, in cui il deficit medio di precipitazioni ha toccato -65%: un dato fortemente negativo che si è tradotto in oltre 100 giorni senza piogge significative. Questo quadro climatico ha inciso pesantemente sulle portate del fiume: nei mesi primaverili hanno continuato il loro processo di lento e progressivo esaurimento, raggiungendo i valori minimi dal 1972. A Pontelagoscuro il dato è stato di 603 metri cubi al secondo (deficit complessivo di marzo pari a -55%), ma la sezione maggiormente in crisi è stata quella di Piacenza, con una portata ridotta a soli 260 metri cubi al secondo e un deficit di -66%, identificando una condizione di estrema siccità idrologica che si è traslata inesorabilmente verso valle, fino al delta. Sul Po, a Boretto, l’idrometro è rimasto stabile oltre la soglia di -3,41 metri e una portata di 420 metri cubi al secondo (il 60% in meno della media del periodo). Per ritrovare livelli del genere bisogna tornare al 1972. Nella locale stazione di pompaggio del Consorzio di Bonifica dell’Emilia Centrale, per giorni gli escavatori hanno movimentato l’acqua per consentire all’impianto di poterla attingere. I prelievi dell’agricoltura in estate sono iniziati e si sono intensificati. Una muraglia di sabbia spostata dal fondo ha creato una sorta di porto davanti all’impianto. A Brescello, nella foce dell’Enza, il basso livello ha fatto affiorare molti tronchi e alberi interi. La spiaggia che si trova sul versante viadanese, di fronte alla foce dell’Enza, dove c’è un’ansa del fiume, ha guadagnato molti metri.

LA CALAMITÀ DELLA SICCITÀ
La siccità è diventata la calamità più rilevante per l’agricoltura italiana con danni stimati in media in un miliardo di euro all’anno soprattutto per le quantità e la qualità dei raccolti. Ma a preoccupare è anche l’innalzamento dei livelli del mare con l’acqua salata che sta già penetrando nell’entroterra bruciando le coltivazioni nei campi e spingendo all’abbandono l’attività agricola. A lanciare l’allarme, di fronte a un 2022 record per la mancanza di piogge e con la siccità nel bacino del Po che minaccia oltre un terzo della produzione agricola nazionale, fra pomodori da salsa, frutta, verdura e grano, e la metà dell’allevamento, è la Coldiretti. Le coltivazioni seminate in autunno come orzo, frumento e loietto hanno rischiato di essere fortemenre compromesse nella fase di accrescimento dalla siccità. Ma a preoccupare sono stati anche lo sviluppo dei prati destinati all’alimentazione degli animali, e la semina del mais, più che problematica, con i terreni aridi e duri.

Se l’ultimo inverno sarà ricordato come uno dei più secchi degli ultimi decenni, l’Italia resta un Paese piovoso con circa 300 miliardi di metri cubi d’acqua che cadono annualmente. Ma per le carenze infrastrutturali – come il progetto della diga di Vetto, in provincia di Reggio Emilia, finito nel dimenticatoio ma spesso invocato – se ne trattiene solo l’11%. In una situazione in cui, prima con l’emergenza Covid e adesso con il conflitto in Ucraina, l’acqua rappresenta un fattore centrale per garantire l’approvvigionamento alimentare e l’avvio di tutta la catena alimentare che dall’acqua trae origine, in uno scenario globale di riduzione degli scambi commerciali, accaparramenti, speculazioni e corsa dei prezzi delle materie prime alimentari, dal grano al frumento, dal mais agli oli vegetali e lo zucchero.

Per questo sul fronte idrico servirebbe un intervento strategico reso necessario proprio anche dai cambiamenti climatici. Con i bacini – ha fatto sapere Coldiretti – si potrebbe arrivare a trattenere il 40-50% dell’acqua piovana portando la risorsa idrica dove non c’è, con la possibilità di triplicare le rese e combattere il dissesto idrogeologico. Dei bacini di accumulo si parla anche in un progetto presentato nella lista degli interventi del Pnrr. Il progetto, ideato e ingegnerizzato e poi condiviso con Anbi, Terna, Enel, Eni e Cdp, prevede la realizzazione di una rete di piccoli invasi con basso impatto paesaggistico e diffusi sul territorio, privilegiando il completamento e il recupero di strutture già presenti, progettualità già avviate e da avviarsi con procedure autorizzative non complesse, in modo da instradare velocemente il progetto complessivo e ottimizzare i risultati finali.

LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA
La guerra in Ucraina sta sconvolgendo quotazioni e mercati e l’economia agricola rischia il cortocircuito, perché le imprese si trovano a lavorare in perdita, con prezzi che non riescono più a coprire i costi di produzione, tra il +500% delle bollette energetiche, il carburante alle stelle e i mezzi tecnici praticamente triplicati. Ma l’agricoltura non si può fermare, è un settore strategico perché garantisce il cibo, le aziende devono essere messe nelle condizioni di poter continuare a lavorare. Il presidente della Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) di Reggio Emilia, Lorenzo Catellani, non usa giri di parole. «C’è grande preoccupazione – ha spiegato – soprattutto per quello che riguarda il mais. La guerra ha spezzato la catena degli approvvigionamenti, causando una reazione a catena di alcuni Paesi europei che hanno deciso lo stop dell’export. Noi siamo rimasti all’improvviso senza materie prime. Il nostro Paese è infatti autosufficiente per circa il 50%, quando dieci anni fa la percentuale si attestava sull’80%: è evidente che si è così fortemente esposti alle dinamiche e alle crisi internazionali. Non dimentichiamo che l’Ucraina è ai vertici della classifica dei Paesi che esportano mais in Italia. Situazione differente per il grano: la preoccupazione non riguarda l’approvvigionamento ma la forte speculazione sui prezzi… ». Ci sono conseguenze anche per il vino simbolo dell’Emilia: «La Russia e l’Ucraina erano Paesi molto interessati al nostro lambrusco. I governi vedevano di buon occhio l’introduzione di un prodotto a bassa gradazione alcolica che andava a sostituirsi ai loro superalcolici. Era diventato – ha aggiunto il presidente della Cia reggiana – un mercato molto interessante per il nostro export mentre il Parmigiano Reggiano sta soffrendo moltissimo il vertiginoso aumento dei costi di produzione. Rispetto all’anno scorso, produrre un quintale di latte costa 15 euro in più (+40%) a causa del netto incremento dell’alimentazione per le bovine, aggravato dalla siccità». Sul fronte agricolo anche la suinicoltura appare in affanno. Già in crisi da mesi a causa della peste suina e dalla mancata valorizzazione delle carni, sta subendo gravi contraccolpi: tante aziende stanno riducendo gli allevamenti, quelle che erano più in difficoltà stanno addirittura chiudendo.

Pesante il contraccolpo occupazionale anche della crisi frutticola in Emilia Romagna. Il comparto ha chiuso il 2020 con 4.4 milioni di giornate lavorative impiegate, ma ne ha bruciate 600.000 rispetto a 5 anni fa (fonte Cso). Confagricoltura Emilia Romagna, accende i riflettori sulle riforme strutturali sollecitate da tempo per ridare redditività alla frutticoltura. «Non c’è rilancio – avverte l’associazione di categoria – senza l’ausilio della ricerca applicata alle varietà vegetali e senza la riforma della legge 102 sullo stato di calamità, in uno scenario profondamente mutato dagli effetti del cambiamento climatico e messo in pericolo dalla proliferazione di nuovi parassiti e dall’imprevedibilità degli eventi meteo estremi». Da un lato, si evidenzia il ruolo principale ricoperto dal settore frutticolo regionale sotto il profilo della creazione di posti di lavoro come pure l’impatto sul tessuto socio-economico del territorio. Dall’altro, il gap occupazionale registrato negli ultimi 5 anni rivela le debolezze dell’intera filiera e la scarsa capacità competitiva del comparto che pur rappresentando il 13,5% dei valori produttivi del primario emiliano-romagnolo, non cessa di perdere pezzi. Albano Bergami, presidente nazionale e regionale dei frutticoltori di Confagricoltura, sottolinea che «la drastica flessione della superficie frutticola dell’Emilia-Romagna, 19.000 ettari in meno in 15 anni: flettono le esportazioni della filiera ortofrutticola italiana, fermandosi a 5 miliardi di euro di fatturato, contro i 15 miliardi di euro, in tendenziale crescita, della Spagna.

CIBO RAZIONATO NELLE STALLE
La guerra in Ucraina taglia fino al 10% le razioni di cibo a mucche, maiali e polli negli allevamenti italiani che si trovano a fronteggiare la peggiore crisi alimentare per gli animali dalla fine del secondo conflitto mondiale a causa dell’esplosione dei costi dei mangimi e del blocco alle esportazioni di mais dall’Ucraina e anche dall’Ungheria, con una decisione unilaterale di Budapest che compromette il mercato unico europeo e mina le fondamenta stesse dell’Unione Europea.

Ci sono effetti immediati sulle forniture alimentari con riduzioni della produzione di latte, carne e uova in un’Italia che è già pesantemente deficitaria in tutti i settori dell’allevamento e produce appena il 51% della carne bovina, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovvigionamento. Con la decisione dell’Ungheria di ostacolare le esportazioni nazionali di cereali, soia e girasole, è a rischio un allevamento italiano su quattro che dipende, per l’alimentazione degli animali, dal mais importato da Ungheria e Ucraina, che hanno di fatto bloccato le spedizioni e rappresentano i primi due fornitori dell’Italia del prezioso e indispensabile cereale. Dall’Ungheria sono arrivati in Italia ben 1,6 miliardi di chili di mais nel 2021 mentre altri 0,65 miliardi di chili dall’Ucraina per un totale di 2,25 miliardi di chili che rappresentano circa la metà delle importazioni totali dell’Italia che dipende dall’estero per oltre la metà (53%) del proprio fabbisogno, secondo le analisi della Coldiretti.

L’Italia è costretta ad importare materie prime agricole – sottolinea Coldiretti – a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che sono stati costretti a ridurre di quasi 1/3 la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni durante i quali è scomparso anche un campo di grano su cinque con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati. «Siamo di fronte a una nuova fase della crisi, dopo l’impennata dei prezzi arriva il rischio concreto di non riuscire a garantire l’alimentazione del bestiame – avverte il presidente della Coldiretti Ettore Prandini -. Da salvare ci sono tra l’altro 8,5 milioni di maiali, 6,4 milioni di bovini e oltre 6 milioni di pecore, oltre a centinaia di milioni di polli e tacchini». L’aumento delle quotazioni dei cereali, ai massimi da un decennio, sta mettendo in ginocchio gli allevatori italiani. Il costo medio di produzione del latte, fra energia e spese fisse, ha raggiunto i 46 centesimi al litro secondo l’ultima indagine Ismea, un costo molto superiore rispetto al prezzo di 38 centesimi riconosciuto a una larga fascia di allevatori. Il verdetto? È a rischio il futuro della zootecnia italiana che ogni giorno, tra latte, carne e uova genera un giro d’affari di circa 40 miliardi di euro.

di Corrado Guerra