Da un recente rapporto Istat sul futuro demografico del paese emerge che l’Italia passerà dagli attuali 61 milioni di abitanti a circa 54 milioni entro i prossimi quaranta anni. Nello stesso periodo la speranza di vita media si alzerà dai 78 a circa 84 anni, generando un fortissimo squilibrio tra chi è in età di lavoro (20 – 69 anni) rispetto alla popolazione degli over 70. Tale rapporto, che nel 2000 era di 5 a 1, scenderà tra 40 anni a 1 a 1 con un lavoratore per ogni persona di età uguale o superiore a 70 anni.
Dovremo affrontare un automatico e significativo aumento del costo della spesa sanitaria e parallelamente il rischio di un ulteriore aumento del debito pubblico, che già oggi presenta livelli di rapporto col Pil non tra i più virtuosi. Difficile quindi non pensare ad un ulteriore aumento delle imposte, ad un taglio delle pensioni ed ad una diminuzione dei servizi che lo Stato oggi garantisce.
Altro elemento di preoccupazione sono i 250mila giovani (tra i 15 – 34 anni) emigrati nell’ultimo decennio, costati all’Italia un importante contributo intellettuale, oltre ai 16 miliardi di euro di mancata ricchezza prodotta.
Come affrontare questo nostro fenomeno demografico, quando parallelamente il pianeta tra 40 anni sarà abitato da quasi 10 miliardi di persone, quando già oggi nel continente africano ogni anno 50 milioni di giovani diventano diciottenni e quando per ogni bimbo che nasce nella nostra penisola ne nascono 70 in India? Riuscirà il nostro paese a rimanere competitivo in un contesto di rischio di ritorno alle regionalizzazioni? Quale sarà l’impatto sulle nostre esportazioni della guerra sui dazi tra Stati Uniti e Cina, paese che ancora oggi ricorda il prezzo che dovette pagare durante le guerre dell’oppio nella metà dell’800?
Sicuramente una risposta concreta è data dalla nostra capacità di sistema paese di saper innovare.
Nel XXI secolo l’innovazione è diventata il cuore e l’anima della politica economica mondiale, sia paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo sono in corsa per abbandonare l’industrializzazione, adattandosi invece alle società imprenditoriali focalizzate sulla tecnologia. A riguardo, una ricerca di Bloomberg è riuscita a misurare, attraverso sette parametri equamente ponderati, la capacità di innovazione di 200 nazioni, pubblicando i risultati delle 60 migliori economie ogni anno più innovative. Ai vertici di questo indice troviamo la Sud Corea, la Germania, la Finlandia, la Svizzera ed Israele. L’Italia anche quest’anno ha perso una posizione scivolando al 21° posto del ranking mondiale.
Spese per ricerca e sviluppo, numero di brevetti depositati, efficienza terziaria, valore aggiunto di produzione, densità di azienda ad alta tecnologia, concentrazione di professionisti impegnati in ruoli di ricercatori e livelli di produttività complessivi della popolazione in età lavorativa rappresentano i sette parametri presi in esame. Basterebbe riflettere ed intensificare gli sforzi su queste linee guida utilizzate dagli analisti americani per cercare di essere maggiormente competitivi nello scenario economico mondiale.
Il tempo non gioca a nostro favore, occorre fare in fretta lavorando tutti per lo stesso obiettivo, ricordando sempre che ancora oggi mai nessuna nazione è riuscita a creare uno sviluppo di ricchezza pro-capite come ebbe l’Italia dal dopoguerra fino agli anni ‘80.
Il pensiero di essere capaci di miracoli economici e sociali non ci deve mai abbandonare.