L’esotico nome di Via della Seta, seppur coniato solo nel diciannovesimo secolo da un geografo tedesco, ci rimanda immediatamente ai tempi antichi di Marco Polo e della Serenissima, in cui lunghe e pericolose spedizioni commerciali europee intraprendevano il cammino verso l’Oriente allo scopo di riportare in patria prodotti introvabili e materiali preziosi, come carta, spezie, porcellane e polvere da sparo. Così allo stesso modo le carovane mercantili dell’antico Catai approdavano dopo epici viaggi nel continente europeo per acquistare vetro, cavalli, lana, oggetti preziosi. Era un mondo antico, in cui i commerci si facevano con popoli letteralmente di un altro mondo, per distanza geografica e culturale. Oggi il nostro pianeta si è rimpicciolito notevolmente grazie alla tecnologia, ma la differenza di stile di vita, cultura, risorse e tipicità produttive rimangono peculiari: l’Italia rimane l’Italia, così come la Cina resta la Cina. Ed è soprattutto l’espansione cinese che oggi richiede famelicamente commercio, in uscita e in entrata. Ed ecco perché, oggi, si sta preparando una nuova e modernissima Via della Seta. Con investimenti mai visti prima.
Avete già letto in giro le sigle Obor, Bri o le diciture One Belt One Road e Belt and Road Initiative? Magari no, perché il nome Via della Seta è di certo più affascinante, ma si tratta della medesima cosa. È proprio con il nome di One Belt One Road che la Cina ha varato quello che si avvierà a diventare il più enorme dei progetti economici mai varati prima dall’uomo. Credete di aver letto parole troppo forti? Allora forse non conoscete bene le peculiarità della via della seta del terzo millennio. Avete cinque minuti e una mappa del mondo a portata di mano?
Un progetto faraonico
Il progetto non è una novità dell’ultimo minuto, ma l’idea affonda le proprie radici negli anni in cui l’economia cinese è stata al suo apogeo. Il piano venne presentato in pubblico per la prima volta nel settembre 2013 dal presidente Xi Jinping e dal premier Li Keqiang. Nel marzo 2016 l’Obor venne enunciato come strumento principale della strategia di raddoppio del Pil e della creazione di nuovi legami internazionali in seno al 13° piano quinquennale del paese. Originariamente il piano era orientato alla connessione della Cina con i mercati dell’Europa centro-occidentale, sia via terra che via mare, ma l’appetito vien mangiando e le ramificazioni che si stanno progettando oggi arriveranno all’Africa, al Sud America, nei Caraibi e persino nell’Artico.
“Il progetto del secolo” lo ha definito il presidente Xi, e dando uno sguardo alle caratteristiche logistiche del piano, non si riesce a dargli torto. La Morgan Stanley stima a oggi che la spesa complessiva del progetto ammonterà a 1300 miliardi di dollari entro il 2027, con l’adesione di almeno 157 tra nazioni e organizzazioni internazionali aderenti. Il piano include opere logistiche e infrastrutturali di ogni genere. Per fare qualche esempio, strade e centrali elettriche in Pakistan e una linea ferroviaria ad alta velocità in Indonesia. I paesi coinvolti dunque godranno di opere infrastrutturali importanti, anche se non completamente spesate dalla Cina. Anzi, bisogna affermare che vi sono alcuni paesi in cui comincia a montare il dibattito sul bilancio costi-benefici della collaborazione col colosso asiatico, in particolare dopo lo scambio che Cina e Sri Lanka hanno concluso una sorta di accordo capestro in cui una compagnia cinese ha ottenuto la concessione esclusiva di un porto cingalese di recente sviluppo in cambio di un sostanziale sconto sugli 8 miliardi di debito che il paese ha con la Cina. Accordi simili sono stati presi anche con altri paesi asiatici, in cui la rinegoziazione degli accordi con la Cina è diventato un argomento di discussione politica interna, talvolta orientando le scelte politiche delle popolazioni. Il neo governo malese ha per esempio rinegoziato il precedente accordo inerente un progetto ferroviario che lo avrebbe impegnato a spendere 11 miliardi di dollari, riducendo l’impegno di due terzi; la stessa cosa ha fatto il nuovo governo del Myanmar che ha drasticamente ridotto a 1,3 miliardi di dollari la spesa di un accordo portuale che la precedente giunta militare aveva stipulato a 7,5 miliardi. Ed è di questa estate invece l’improvviso stop del governo della Tanzania alla costruzione del porto di Bagamoyo, un progetto da 10 miliardi che avrebbe creato lo scalo portuale più grande della costa est africana, ma che il governo nazionalista non vuole più concedere a causa delle condizioni imposte giudicate “vessatorie e imbarazzanti”. Vi sono anche paesi asiatici che si sono fermamente opposti alla collaborazione con la Cina, come l’India e la Corea del Sud, mentre il Giappone guarda al progetto cinese con interesse ma anche moltissima cautela.
Nonostante questi problemi locali, lo sviluppo della rete procede spedita e, a oggi, è già costata più di quanto gli Stati Uniti abbiano speso nel secondo dopoguerra per il famoso piano Marshall, con cui gli Usa si assicurarono un forte aggancio geopolitico in Europa occidentale. E al di là degli aspetti meramente economici, un importantissimo obiettivo della nuova Via della Seta potrebbe essere proprio una dilagante espansione dell’influenza politica cinese nel mondo, proprio in un momento storico in cui la presidenza Trump sta drasticamente (e forse pericolosamente) ridimensionando gli accordi commerciali internazionali americani in tutto il mondo.
Ma da dove arrivano i capitali per questa faraonica operazione? Secondo Gavekal Research, gli enti statali cinesi hanno stanziato 345 miliardi di dollari, mentre altri 233 arrivano dalle banche commerciali cinesi, 40 dal China Road Silk Fund, 100 dalla Asian Infrastructure Investment Bank e 59 arriveranno persino dalla Banca Mondiale, che afferma che “la rinascita della Via della Seta ha il potenziale per stimolare la crescita economica globale”. Certo, le difficoltà non mancheranno e nemmeno i rischi; la corruzione è uno di questi, dato che in Kirghizistan ci sono già ministri e burocrati sotto processo per presunte ruberie collegate ai progetti; ma anche la possibilità di creare infrastrutture che rimangano cattedrali nel deserto, come un recente modernissimo aeroporto in Sri Lanka che al momento ospita solo un paio di voli al giorno. La Cina sembra però muoversi in modo oculato, anche per via della recente frenata della propria crescita economica: Xi, tra le altre cose ha promesso la riduzione del debito di alcune nazioni africane che collaborano alla rete, è stato fatto inoltre un forte richiamo alla responsabilità sociale negli investimenti e per questo si sta lavorando anche a delle regole per determinare quali progetti possano essere etichettati Obor, in modo da evitare danni alla reputazione sociale dell’iniziativa.
Italia, approdo fondamentale
L’Italia si è agganciata velocemente al treno di partner trainato dalla locomotiva cinese, anzi è stata la prima grande economia europea a farlo, suscitando anche più di una perplessità tra gli alleati occidentali. L’occasione è stata la visita del presidente Xi a Roma, lo scorso marzo, nella cui occasione sono stati firmati 29 accordi per un totale di 2,5 miliardi di euro. Il ventaglio di intese comprendono accordi su energia, finanza e prodotti agricoli, come la possibilità di ingresso delle grandi società italiane energetiche e metalmeccaniche nel mercato cinese. In cambio la società cinese di comunicazioni e costruzioni avrà accesso al porto di Trieste per accedere ai collegamenti con l’Europa centrale e orientale, oltre ad un coinvolgimento nello sviluppo del porto di Genova.
L’accordo, come già detto, ha destato preoccupazione tra gli altri partner occidentali, ed ha diviso anche il primo governo Conte, con il M5S propulsore dell’accordo da cui la Lega ha voluto invece tenersi politicamente lontana. La mossa italiana ha però avuto il pregio di mettere in movimento l’Europa e smuoverla da una diffidenza paralizzante nei confronti della Cina. È infatti recentissimo l’accordo tra Ue e Cina in materia agroalimentare, in cui cento Indicazioni Geografiche europee verranno protette da imitazioni e usurpazioni sul mercato cinese ed altrettante specialità della Cina godranno dello stesso trattamento nel Vecchio Continente. L’elenco nei prossimi quattro anni salirà a 275, ma nel frattempo già 26 Ig sono italiane, tra cui l’aceto balsamico di Modena, i prosciutti di Parma e San Daniele, il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano o vini come Barolo, Chianti e Prosecco. Come sottolinea Coldiretti, l’elenco protegge appena il 3% dei prodotti italiani a indicazione d’origine e vede anche esclusioni eccellenti, tuttavia è un primo importante passo verso un mercato in espansione per l’export agroalimentare europeo, che dal settembre 2018 all’agosto 2019 ha raggiunto i 12,8 miliardi di euro di valore.
Ma questo è solo uno strumento. La politica commerciale con la Cina sarà una strategia da negoziare attentamente, ed ogni paese europeo sta avviando le proprie con i paesi che non hanno aderito al progetto Obor, paradossalmente, in prima linea. L’Italia dovrà quindi darsi da fare sfruttando nel modo migliore la sua posizione di privilegio di partner della Via della Seta con idee, strategie e fatti concreti, altrimenti la posizione privilegiata di cui sopra rimarrà solo una proposizione teorica, e la corrente dell’afflusso commerciale rischierà seriamente di andare solo da est a ovest.
Trieste, la frontiera
Ma il fulcro del memorandum stipulato tra Italia e Cina in ottica Obor rimane l’uso del porto di Trieste. Per capire meglio il futuro dell’infrastruttura nell’ottica dello sviluppo della nuova Via della Seta, abbiamo interpellato Francesco De Filippo, responsabile Ansa del Friuli Venezia Giulia e autore dei saggi “La nuova Via della Seta” e “Il dragone rampante”, editi da Castelvecchi, a cui abbiamo chiesto quale sarà il grado di coinvolgimento del tessuto economico friulano nello sviluppo del progetto che coinvolge lo scalo triestino. «Questa è una domanda a cui si potrà rispondere veramente solo dopo il suo avvio – risponde De Filippo – perché in realtà l’accordo in cui è coinvolto il porto di Trieste fa parte della messa in opera di un tri-hub, che si compone di altri due vertici che stanno in Repubblica Ceca e Slovacchia. L’accordo prevede anche la disposizione di un’area nel retroporto triestino a favore di una compagnia cinese che poi dovrebbe creare le condizioni per uno sviluppo industriale ed essere, soprattutto questo, il volano economico per tutta la zona. Dal punto di vista istituzionale, l’Autorità portuale dell’alto mar Adriatico ha disegnato una cornice giuridica entro la quale le società cinesi che arriveranno dovranno muoversi, tutelando così gli interessi locali e nazionali».
Una prospettiva positiva dunque, ma è anche vero che non sono mancate le perplessità, quantomeno a livello politico nazionale. Ma a livello locale quali sono le aspettative? «Ho sentito molte personalità – prosegue De Filippo – sono tutte quante d’accordo nella positività dell’arrivo dei cinesi. Questo per avere una nuova opportunità di dare una sferzata alla stagnazione economico-finanziaria che ormai da anni ci colpisce e che non dà segnali, a breve termine, di concludersi. La nuova possibilità di ricavare nuove possibilità economico-industriali viene vista con ottimismo. C’è da dire che questo tipo di iniziative dovranno essere studiate ed elaborate all’interno di un sistema Italia, e che quindi si abbia la coscienza che lavorare e stringere alleanze con un partner come la Cina, che economicamente è enormemente più potente dell’Italia, crea dei rischi. Una volta che si ha questa consapevolezza e che si corre al riparo con misure giuridiche offerte dal diritto nazionale e internazionale, io credo che si possa operare con oculatezza ma con tranquillità. I cinesi hanno una disponibilità finanziaria tale da poter acquistare quello che vogliono senza batter ciglio. È chiaro che diventa un partner scomodo perché non alla pari. Pertanto non bisogna andare allo sbaraglio e stipulare quindi degli accordi ragionati e lungimiranti che tutelino e convengano a entrambe le parti. Non dobbiamo essere colonizzati insomma, ma del resto credo proprio che non sia intenzione dei cinesi colonizzarci».
Cautela dunque, ma spirito di collaborazione verso un progetto enorme cui bisogna partecipare. O qualcun altro lo farà al posto nostro, come conferma De Filippo: «I cinesi si muovono molto bene e cominciano a diventare dei veri esperti in materia di diritto internazionale, e dal momento che i porti di Trieste o Genova si negassero alla collaborazione, i cinesi tenterebbero altre strade come ad esempio collaborazioni con i porti di Marsiglia e Barcellona, o spingere le loro rotte mercantili addirittura ai grandi porti del nord Europa. Attualmente la Cina è una potenza economica trascinante, pertanto bisogna collaborare con destrezza e cautela. Io credo che gli italiani, indipendentemente dal colore politico del governo, non debbano lasciarsi sfuggire questa opportunità perché in possesso di competenze ed esperienza per farlo nel modo migliore e senza timori particolari».
Emilia-Romagna-Cina
Quello cinese è un mercato promettente per il sistema economico dell’Emilia-Romagna. I dati di Unioncamere E-R sull’interscambio della regione con la Cina (intesa come Cina, Hong Kong e Macao), ci dicono che nel 2018, le esportazioni sono ammontate a 2.705 milioni di euro, pari al 4,3 % del totale regionale, con un incremento del 5,1% che risulta in controtendenza rispetto all’andamento nazionale, e con un aumento del 109,3 % (a valori correnti) rispetto al 2008. Nel primo semestre del 2019, le esportazioni emiliano-romagnole verso la Cina ammontano a 1.441 milioni di euro, in aumento del 12,3 % sullo stesso periodo del 2018. Le voci principali delle esportazioni regionali verso la Cina, Hong Kong e Macao sono date dall’insieme dei macchinari e apparecchiature n.c.a., e dalla moda. Seguono i mezzi di trasporto, che hanno ottenuto un rilevante successo nel primo semestre dell’anno, e i prodotti della chimica, farmaceutica, gomma e materie plastiche.
Il rilievo assunto da questo mercato per le esportazioni regionali può essere riassunto nell’importanza che ha per il settore del fashion, che assorbe circa un decimo di tutte le esportazioni. Se, poi, si considera il lungo periodo, occorre riflettere sul grande successo ottenuto sul mercato cinese dai prodotti dell’industria alimentare (cresciuti del 423,2% in termini nominali), dell’industria del legno e del mobile (+ 419.2% sempre in termini nominali) e delle industrie del fashion, il cui export si è incrementato del 283,6% a valori correnti. Categorie merceologiche, queste ultime, che, con i mezzi di trasporto, sono inserite nella fascia dei prodotti di lusso.
Una realtà commerciale molto forte e un mercato promettente dunque, come ci conferma il presidente di Unioncamere Emilia-Romagna, Alberto Zambianchi. «Negli ultimi anni la Cina è diventata un mercato sempre più ricco di opportunità per le imprese italiane con vocazione internazionale e, nell’ultimo decennio, il valore dei prodotti Made in Italy esportati è più che raddoppiato. Il Paese, oggi, si colloca tra i primi dieci nella classifica dei mercati di destinazione delle esportazioni italiane e occupa il primo posto nel continente asiatico. Si tratta di un mercato che ha rappresentato, quindi, uno dei principali traini dell’export italiano di beni, con andamenti particolarmente positivi nei settori dei beni di investimento, come la meccanica strumentale e i mezzi di trasporto». Secondo le previsioni Sace Simest, l’export italiano in Cina proseguirà la sua crescita con un incremento a tassi medi prossimi al 9% tra il 2019 e il 2021. Tra i settori per i quali si prevede la dinamica più positiva troviamo i mezzi di trasporto. Buone performance sono previste anche per le esportazioni del settore chimico-farmaceutico, del tessile e abbigliamento e della meccanica strumentale. Più incerte sono le previsioni per i prodotti agroalimentari che scontano barriere nell’accesso al mercato di natura tariffaria. «Nonostante però alcune restrizioni al mercato cinese e problemi di tipo legale, che richiedono uno sforzo aggiuntivo delle nostre imprese – dichiara Zambianchi – le dimensioni del Paese e la sua forte crescita valgono l’impegno. Ritengo che la Cina, che sta sperimentando un’ulteriore fase di evoluzione del proprio modello economico, continuerà a costituire, anche se con ritmi di crescita meno sostenuti rispetto al recente passato, una delle geografie emergenti più dinamiche anche nel prossimo futuro».
Abbiamo chiesto anche a Zambianchi se il percorso di avvicinamento all’economia cinese sia complessivamente sereno nell’ottica dell’imprenditoria italiana, e quali possono essere le maggiori criticità che posso preoccupare. «Non tralasciando il tema dei diritti umani, che condizionano anche l’economia e le condizioni di mercato – risponde il presidente di Unioncamere E-R – il timore forse più grande è quello della nostra capacità, come sistema paese, di riuscire a riequilibrare una relazione commerciale oggi troppo sbilanciata a favore della Cina, e nel contempo, di saper gestire vantaggiosamente tutte le molteplici possibili implicazioni per la nostra economia. Da un lato, infatti, un interscambio commerciale migliore con la Cina potrebbe rappresentare un’opportunità unica anche per le nostre tantissime Pmi, che hanno bisogno di nuovi mercati di sbocco per i loro prodotti, dall’altro, secondo alcuni, potrebbe rivelarsi anche una minaccia. È importante che la nostra penisola non sia valorizzata solo come scalo logistico per la distribuzione dei prodotti cinesi nell’area mediterranea e balcanica. La strada verso relazioni improntate a una maggiore fiducia passa in ogni caso anche attraverso una partnership solida e capace di affrontare fenomeni come l’italian sounding, la concorrenza sleale e l’imposizione di barriere commerciali».