Siamo entrati in una spirale in cui il costo dell’energia elettrica e del gas, come in precedenza è sempre accaduto al petrolio, sembra impennarsi di fronte ad ogni minima notizia di crisi internazionale, per poi sgonfiarsi al rallentatore nei periodi di relativa tranquillità. Perché accade tutto questo?
Siamo in una fase in cui, soprattutto i piccoli imprenditori, aspettano di ricevere la bolletta dell’energia elettrica per capire se il loro business è ancora sostenibile oppure no. Il costo dell’energia elettrica infatti, dall’inizio della guerra con cui la Russia ha aggredito l’Ucraina all’inizio di quest’anno, è esploso arrivando a picchi insostenibili, capaci di mandare a gambe all’aria i bilanci delle imprese che si stavano assestando dopo i traumi del periodo pandemico. In realtà, dopo i minimi del periodo del lockdown globale, dove la domanda di energia è crollata ai minimi storici, il prezzo è cominciato subito a salire sostanziosamente alla ripresa delle attività economiche, ma questi rialzi generosi sono stati nulla rispetto a quello che ci ha atteso al varco nello scorso marzo e con cui ancora oggi dobbiamo fare i conti tutti, famiglie e imprese. Ma al di là della guerra in Ucraina, siamo entrati in una spirale in cui il costo dell’energia elettrica e del gas, come in precedenza è sempre accaduto al petrolio, sembra impennarsi di fronte ad ogni minima notizia di crisi internazionale, per poi sgonfiarsi al rallentatore nei periodi di relativa tranquillità. Perché accade tutto questo?
È il libero mercato, baby
Torniamo indietro al 2013. Fino a quel periodo il prezzo del gas in Italia era stato regolato da un regime di contratti di fornitura stipulati a lungo termine, che permettevano di avere un prezzo stabile anche al consumo per lunghi periodi di tempo. Da quel momento in poi però, quei contratti una volta esauriti non vennero più rinnovati. Ed il perché è semplice: da quel momento i player europei decisero di giocarsi il gas col trading dei futures attraverso il Ttf – Title Transfer Facility – alla borsa di Amsterdam. La borsa olandese infatti, che è il mercato di riferimento europeo per il gas naturale, rispetto ai contratti a lungo termine offriva quotazioni molto più favorevoli attraverso quello che si chiama il meccanismo del prezzo spot, ossia la quotazione del momento. In tempi tranquilli questo meccanismo è stato per molto tempo molto favorevole, ma di fatto il mercato è stato consegnato nelle mani della finanza speculativa che, come sappiamo, non opera sulla base di razionali calcoli economici, bensì reagisce alle minime fibrillazioni delle informazioni giornaliere e s’innervosisce in base alle sensazioni conseguenti. Quindi basta una dichiarazione ostile di un politico, un intoppo ai lavori di un gasdotto o un guasto su un hub per scatenare un’impennata dei prezzi che non ha un vero senso logico, ma risponde semplicemente ai sussulti di un mercato che sostanzialmente non vede l’ora di entrare in agitazione. E cosa poteva accadere a un meccanismo del genere sotto la sollecitazione di una crisi geopolitica internazionale che stava per coinvolgere Russia e Ucraina? Ovviamente un’impennata dei prezzi. Se andiamo a vedere i prezzi mensili del gas a gennaio 2022, ai tempi delle prime avvisaglie della guerra, il prezzo del gas doganale, ossia quello dei contratti a lungo termine, si alzava fino alle soglie dei 40 euro per megawattora, mentre il prezzo spot sfondava i 120 euro.
Tuttavia il costo della bolletta elettrica non dipende solo dal prezzo del gas, che è una delle componenti che creano ogni mese il Pun – Prezzo Unico Nazionale – dell’energia, che computa anche la disponibilità e i costi delle energie rinnovabili. Proprio la quota di energia prodotta in Italia da fonti rinnovabili si può considerare come un’ancora di salvezza, perché si tratta di una percentuale importante, pari al 39% del fabbisogno nazionale nel primo semestre 2021 e del 33% al primo semestre 2022. Anche se la percentuale sembra in calo, in realtà la tendenza è in aumento per il numero di impianti che hanno innalzato la quota di fotovoltaico del 10%, mentre l’eolico ha aumentato il suo apporto del 9%, mentre è crollata la produzione idroelettrica a causa del periodo più siccitoso degli ultimi 500 anni. E i dati potrebbero andare anche molto meglio se non ci si mettesse la burocrazia a fare da collo di bottiglia alla creazione di nuovi impianti, con iter autorizzativi interminabili e soprattutto sovraintendenze dall’opposizione facile. Il problema è che almeno il restante 40% del fabbisogno energetico nazionale viene coperto dal metano, attraverso i gasdotti o il Gnl (gas naturale liquefatto).
Scelte green
La crisi energetica determinata dalla guerra in Ucraina e le relative sanzioni alla Russia – il più grande fornitore di fonti energetiche fossili dell’Italia, capace di soddisfare il 38,2% della domanda nazionale – ha fatto muovere la politica del governo Draghi verso la ricerca di nuovi fornitori, verso un aumento dell’importazione di Gnl da Qatar, Egitto, Congo e Usa. Il governo Meloni recentemente insediatosi ha proseguito con un piano di trivellazioni nell’Adriatico che dovrebbe portare all’estrazione di 10 miliardi di metri cubi di gas in 15 anni, da distribuire poi a prezzo calmierato. Ma considerato il consumo annuale italiano di 70 miliardi di metri cubi di gas, questa carta pare tutt’altro che decisiva. E comunque ci vorrà tempo.
Intanto le imprese si augurano che vengano confermati i provvedimenti dei decreti sostegni, specialmente il ter, che offre una parziale compensazione degli extra costi energetici alle imprese sotto forma di credito di imposta, oltre agli azzeramenti degli oneri di sistema. Ma questo 2022 è stato comunque duro.
«Non siamo energivori, ma certo grandi consumatori di energia elettrica e gas», dice Anna Paola Cavanna, Presidente del Cda di Laminati Cavanna, leader nell’accoppiamento di imballaggi flessibili. «Oggi registriamo un aumento del 133% dei nostri costi di energia elettrica e 390% del gas rispetto al 2021, con un’incidenza sul bilancio dal 4 al 15%. Abbiamo fatto scelte e accelerato investimenti, anche ingenti, come la sostituzione dell’ossidatore con un impianto di recupero solventi, prodotto comunque indispensabile nella nostra attività sempre attenta all’ambiente e all’economia circolare. Abbiamo efficientato tutta l’illuminazione a Led e rimodulato i tempi della produzione per risparmio luce e gas. L’aumento dei costi di tutte le materie prime rischia di mettere in crisi definitiva molte aziende e di ribaltarsi sul consumatore finale, in un’insostenibile spirale inflativa».
La strada dell’investimento tecnologico e dell’efficientamento energetico sembra quella maestra per tutte le aziende, come conferma anche Claudio Bombardi, general manager di Bombardi Rettifiche, realtà che ha visto triplicarsi i costi energetici durante l’anno in corso, con un impatto di partenza del 3,5% sul fatturato che oggi arriva al 8,8%. «Abbiamo un piccolo impianto fotovoltaico da 66 Kw che nelle prossime settimane verrà aumentato di ulteriori 160 Kw – spiega Bombardi, che è anche consigliere del direttivo del gruppo meccatronico di Unindustria Reggio Emilia – In questo modo ci creeremo da soli il 40-45% dell’energia per il nostro fabbisogno. Si tratta di un investimento che abbiamo programmato all’inizio di quest’anno quando abbiamo cominciato a notare che i costi stavano esplodendo, ma che realizziamo solo adesso per i tempi tecnici che comprendono anche la disponibilità dei materiali, oggi praticamente introvabili. Avremmo fatto anche un investimento più importante, ma in questo modo sfrutteremo già tutto lo spazio disponibile del nostro impianto. Quindi comunque per almeno la metà delle nostre esigenze saremo comunque legati al prezzo di mercato dell’energia».
Soluzioni e paradossi
Ma non tutte le imprese, soprattutto dopo il periodo pandemico, hanno avuto la lungimiranza o anche solo la disponibilità di investire. Altre aziende, per la loro tipologia, non hanno soluzioni che tornare al passato. È il caso di molte industrie vetrarie che devono mantenere temperature di fusione sempre costanti e che hanno sostituito il gas con il gasolio, fortunatamente con test positivi delle emissioni certificati dalle Arpa di competenza. Si vanno diffondendo anche le comunità energetiche in alcuni distretti industriali, in cui pmi si alleano per avere un calibrato piano di produzione, autoconsumo, accumulo e vendita di energia da fonti rinnovabili.
E si ritorna quindi proprio alla produzione energetica attraverso fonti rinnovabili, l’ancora di salvezza dell’oggi, l’occasione perduta del passato, la chiave per il futuro. Su questo tema però grava un grosso paradosso. Perché le imprese che hanno un proprio impianto di autoproduzione energetica che supera i 20 Kw vanno incontro alla norma sugli extraprofitti, in cui il Gse (Gestore servizi energetici) richiede rimborsi a migliaia di imprese per la restituzione di somme che variano da alcune migliaia a decine di migliaia di euro con un forte impatto sui costi e la liquidità delle imprese, per i presunti extraprofitti realizzati nella vendita di energia eccedente alla rete nazionale. In sostanza la stessa norma che ha fatto registrare ad Eni un passivo di circa miliardo sul mercato italiano. Solo che il colosso degli idrocarburi ha segnato 11 miliardi di euro di utile in nove mesi grazie all’attività all’estero dove ha goduto in pieno dell’impennata del costo dell’energia. Questi sì che sono extraprofitti, saperli riconoscere bene aiuterebbe.
di Enrico Finocchiaro