Quando la proposta venne avanzata, fu accolta con sufficienza. Proclamare un referendum per avvalersi dell’articolo 50 del Trattato dell’Unione Europea che sancisce la possibilità di un paese membro di uscirne. In Gran Bretagna un piccolo ma chiassoso movimento politico cominciò a chiederlo a gran voce, e una poco lungimirante classe politica decise di accoglierne l’istanza con l’idea di fortificare con poco sforzo la propria leadership traballante. In pochi, in Gran Bretagna e nel resto d’Europa immaginavano cosa sarebbe uscito dalle urne: la Brexit.
Da quel 24 giugno 2016 sono passati tre anni, e ancora oggi non si ha la certezza di cosa accadrà, verso cosa andranno incontro le leggi, i cittadini, le imprese britanniche. Ma anche quelle europee, e quindi le nostre.
La vicenda dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea è una sorta di tragicommedia politica non ancora conclusa, talmente paradossale e dai contorni machiavellici, che si fatica davvero a immaginare che stia andando in scena in uno dei Parlamenti storicamente più rispettati del mondo. Tutte le opzioni ad oggi restano in campo, compresa quella di un secondo referendum che ribalti tutto, tuttavia esiste una data finale che non pare più procrastinabile: il 31 ottobre. Si procede verso quella data con sempre più possibilità che si arrivi con un no deal, ossia un’uscita senza alcuna intesa commerciale, ma con l’automatica espulsione dal mercato comune europeo. Questo potrebbe significare nuovi vincoli doganali, la possibilità dell’introduzione di dazi, l’introduzione di una burocrazia finora inesistente o quasi, maggiori spese per le imprese, maggiori e incerti vincoli di scambio, oltre a una miriade di possibili ricadute sui cittadini, che andrebbero a toccare tantissimi aspetti della vita quotidiana, dalla telefonia ai diritti di residenza. Primi effetti economici si stanno già registrando nei paesi più esposti con il Regno Unito, come Germania, Francia e Olanda. Tuttavia anche in Italia, verso cui i rischi sembrano più limitati, le imprese rischiano di pagare il no deal con un impoverimento di 4 miliardi all’anno.
Economicamente parlando, secondo molti esperti la Gran Bretagna starebbe giocando col fuoco, con una previsione di calo di ricchezza di quasi 58 miliardi di euro l’anno. Le conseguenze di una hard Brexit minerebbero alle fondamenta le principali attrattive del mercato e dell’economia britannica, dall’apertura di mercato verso le merci importate, a quella per gli investimenti diretti, dalla dinamicità della sua industria finanziaria all’essere un tradizionale ottimo trampolino per internazionalizzazione delle imprese.
L’incertezza del diritto
Fare impresa richiede un quadro regolamentare certo per lo sviluppo delle attività economiche, e l’incertezza che ammanta ancora tutta la vicenda mette in difficoltà ogni impresa e investitore che ha rapporti commerciali col mercato britannico. La nuova ricerca International Business Report di Grant Thornton – che viene realizzata due volte all’anno e raccoglie le risposte di 5mila leader aziendali in 35 nazioni, inclusi i Paesi del G20 – mostra che l’ottimismo globale è ora al 39%, con una diminuzione di 15 punti percentuali rispetto al 54% registrato nel secondo trimestre 2018. In questo calo influiscono i timori legati alla guerra commerciale Usa-Cina, le tendenze populiste che vanno affermandosi in talune economie occidentali, tra cui la Brexit. Proprio restringendo il focus di questa ricerca all’Europa, si osserva che mentre l’ottimismo delle imprese nel Vecchio Continente è calato al 28%, nel Regno Unito è crollato al 9% proprio a causa dell’incombere della Brexit.
Ma non si tratta solo di percezioni, perché gli scricchiolii cominciano rendersi palpabili a molti livelli. Per citare un esempio, recentemente la Commissione europea ha presentato la proposta di bilancio per la politica agricola comune per il periodo di programmazione 2021-2027, predisponendo un taglio del budget del 5%, ossia circa 20 miliardi in meno in sette anni, che comunque può considerarsi quasi un successo, data la proposta iniziale che proponeva un taglio del 15%. Sarà sicuramente un taglio che colpirà significativamente il nostro paese e le regioni più attive nell’agroalimentare, tra cui l’Emilia-Romagna, ed è inevitabile ricondurre tutto questo alla Brexit.
In previsione dello scenario peggiore però, la preoccupazione maggiore la confusione normativa che si verrebbe a creare. «Il no deal non significherebbe l’assenza assoluta di regole applicabili tra le parti – spiega Federico Casolari, docente di diritto dell’Unione Europea dell’Università di Bologna – Troverebbero infatti applicazione le norme di diritto internazionale, e in particolare gli accordi internazionali, vincolanti tanto l’Ue quanto il Regno Unito. Nel settore delle attività economiche, rilevano gli accordi conclusi nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, a partire dal “General Agreement on Tariffs and Trade”. Si tratta, tuttavia, di una normativa insufficiente, non in grado di garantire le medesime libertà previste dal diritto dell’Unione europea. Non solo. Anche i meccanismi di enforcement dei relativi obblighi sono assai meno sviluppati e limitano fortemente la possibilità che le imprese possano sollevare questioni/azioni davanti ai giudici nazionali per proteggere i loro diritti».
«È per questa ragione che le istituzioni europee hanno iniziato ad adottare una serie di strumenti normativi nel contesto dei preparativi d’emergenza per l’eventualità di una Brexit senza accordo – prosegue Casolari – L’obiettivo prefissato è quello di limitare i gravi danni che verrebbero prodotti da una Brexit disordinata in settori specifici in cui il mancato accordo avrebbe conseguenze pesantissime per cittadini ed imprese. Si tratta di atti unilaterali e provvisori. In modo analogo, gli Stati membri hanno iniziato ad elaborare piani statali, volti ad esempio ad applicare a tutte le importazioni/esportazioni da/verso il Regno Unito le norme del Codice doganale dell’Unione e le pertinenti norme in materia di imposte dirette».
Anche l’Italia si è mossa con queste modalità e lo scorso maggio la Camera ha licenziato all’unanimità il cosiddetto “decreto legge Brexit”, contenente una serie di misure destinate a garantire sicurezza e stabilità nel periodo di transizione, in assenza di leggi condivise. Le norme includono provvedimenti sulle telecomunicazioni, tra cui l’estensione al settore 5G dei poteri speciali dello Stato in quanto settore strategico; il rinnovo per altri due anni delle garanzie pubbliche sulle cartolarizzazioni delle sofferenze bancarie; un potenziamento delle strutture consolari in Gran Bretagna e tutele per il soggiorno e la richiesta di cittadinanza dei cittadini britannici; il varo di un regime transitorio di 18 mesi per istituti di pagamento e altre imprese finanziarie britanniche destinate a cessare l’attività in Italia, come anche per le imprese assicurative del Regno Unito operanti nel nostro paese, che proseguono l’attività delle coperture fino alla data di recesso.
Dovrebbe trattarsi comunque di soluzioni temporanee e lo spiega proprio il professor Casolari: «Successivamente a questa rete normativa di protezione, si tratterà poi di elaborare in ogni caso un quadro regolamentare comune, attraverso un accordo internazionale che disciplini le relazioni future tra Unione europea e Regno Unito. Alla luce dei veti negoziali posti dal Regno Unito, sia sulla possibilità di mantenere un’unione doganale con gli stati Ue, che riguardo al mantenimento della giurisdizione della Corte di giustizia dell’Unione, l’ipotesi più probabile è quella che si giunga a concludere un accordo di libero scambio di nuova generazione sulla falsariga di quello recentemente concluso con il Canada. Date le strette relazioni esistenti tra le due parti, il negoziato sul testo dell’accordo non dovrebbe essere lungo. Questo non significa, però, che non vi siano rischi: i problemi maggiori riguardano il processo di ratifica dell’accordo, necessaria per la sua entrata in vigore. È ben possibile, infatti, che il Regno Unito incontri delle difficoltà a ratificare l’accordo, similmente a quanto sta accadendo per la ratifica dell’accordo di recesso, rendendo dunque incerta l’applicazione di un nuovo quadro regolamentare di riferimento».
Marchi indifesi?
L’hard Brexit prospetta dunque un non quantificabile periodo di incertezza per quanto riguarda la stesura di una completa nuova normativa commerciale e la chiusura di nuovi accordi di scambio. Ma che fine fa la tutela di marchi e denominazioni, che fino a ora erano garantiti dalla legislazione dell’Ue? Abbiamo girato la domanda a Giovanni Cavani, docente di diritto dei contratti commerciali dell’Università di Modena e Reggio. «L’hard Brexit potrebbe avere effetti diversi a seconda che si tratti di marchi nazionali registrati in Gran Bretagna o di marchi comunitari, o per meglio dire unitari. – spiega Cavani -Va premesso che i marchi, nazionali o unitari che siano, hanno una protezione limitata al territorio del paese in cui la registrazione è avvenuta. Ciò premesso, per i marchi registrati nel Regno Unito non si pongono particolari problemi: chi ha registrato lì il proprio marchio continuerà a godere dei diritti e della protezione che la legge inglese attribuisce sul territorio inglese ai marchi lì registrati. Discorso diverso vale per i marchi unitari, che si caratterizzano per avere effetti sull’intero territorio dei paesi facenti parte dell’Unione Europea, considerato come un unico territorio nazionale. Una volta che la Gran Bretagna fosse uscita senza che fosse concordata una protezione nazionale sul suo territorio di questi marchi, essi non sarebbero quindi più protetti sul territorio inglese. Tale sopravvenuta lacuna potrebbe comunque essere colmata mediante una registrazione nazionale dello stesso marchio in Gran Bretagna da parte del titolare del marchio unitario».
«Quanto ai brevetti – prosegue Cavani – se si tratta di un brevetto nazionale, come è attualmente la regola, esso continuerà a produrre i propri effetti sul territorio britannico e l’uscita dall’Unione, anche hard, non avrà conseguenze alcuna. Vi è poi la possibilità, ancora peraltro non attuale, di ottenere un brevetto unitario, valido e protetto in tutto il territorio della Ue. La questione è molto complessa. Semplificando al massimo, si può dire che, poiché il brevetto unitario, proprio perché tale, è destinato a produrre i suoi effetti sull’intero territorio dei paesi aderenti alla Ue, ma solo lì, qualora la Gran Bretagna uscisse dall’Unione senza alcun accordo sul punto, non potrebbero esser concessi brevetti unitari validi per la Gran Bretagna; e qualora ne fossero stati concessi prima della sua uscita (ipotesi del tutto inverosimile) essi dovrebbero essere trasformati, limitatamente al territorio britannico, in un brevetto nazionale; anche se non è affatto chiaro come ciò potrebbe avvenire».
A questo punto rimane da capire il livello di protezione che continueranno a ottenere le denominazioni e le indicazioni agroalimentari, essenziali per il nostro export. «La protezione di Dop e Igp sul territorio dell’Unione Europea – mette ordine ancora Cavani – è disciplinata da un regolamento che ha messo ordine, in ambito comunitario, nel campo delle denominazioni e delle indicazioni nazionali, avocando a sé non solo la loro disciplina quadro, ma anche e soprattutto il potere di stabilire quali indicazioni e denominazioni riguardanti prodotti di uno stato membro, possano essere protette, concedendo o negando la loro registrazione. Qualora una Dop o Igp venga registrata, essa gode di una protezione che si estende all’intero territorio della Ue e può come tale essere fatta valere davanti ai giudici nazionali. Per definizione, dunque, la protezione non si estende al territorio di paesi che non siano mai stati, o non siano più, aderenti all’Unione. L’uscita della Gran Bretagna comporta che le Dop e le Igp già concesse continuano ad essere protette sul territorio dell’Unione, ma non su quello del Regno Unito dal momento della sua uscita dalla Ue. Altra conseguenza sarà che le Dop e Igp relative, ad esempio, a prodotti italiani, non saranno più protette in Gran Bretagna in forza della loro registrazione Ue; questo accade anche perché non esiste in Gran Bretagna una protezione ad hoc per Dop e Igp. Tali denominazioni e indicazioni potranno essere tutelate dinanzi ai giudici inglesi soltanto contro un loro uso ingannevole, come atto di concorrenza sleale, invocando le norme della Convenzione di Parigi e dell’Accordo di Madrid sul divieto di indicazioni ingannevoli, con inevitabile riduzione dell’effettivo grado di tutela». La situazione arriverebbe ad un paradosso, cioè che anche Dop e Igp inglesi verrebbero meno tutelate proprio sul territorio britannico, come illustra ancora il professor Cavani: «Le Dop e Igp relative a prodotti legati al territorio inglese (circa 50 contro quasi 300 prodotti italiani e le 50 della sola Emilia Romagna. Ndr) continueranno ad essere protette sul territorio Ue ma non su quello inglese; è però ovvio che le imprese inglesi, giocando in casa, potranno tutelare le loro denominazioni dinanzi ai giudici inglesi con maggiori probabilità di successo, ad esempio contro chi commercializzi Oltremanica il falso whiskey. In conclusione: data la netta predominanza delle Dop e Igp legate al territorio italiano rispetto a quelle inglesi, le imprese italiane sono destinate a subire un grave pregiudizio rispetto a quelle inglesi, in assenza di un accordo di tutela nel quadro della Brexit».
Quello britannico diventerà quindi un mercato più rischioso per l’impresa italiana? La carenza o poca chiarezza delle norme potrebbero giocare un ruolo definitivo. Ma quali sono le prospettive? «Molto dipenderà dal posizionamento del Regno Unito nello scacchiere internazionale e dalla politica economico-commerciale che svilupperà – risponde stavolta il professor Casolari – La recente visita di stato di Trump e le sue esternazioni sulla necessità che la Gran Bretagna si smarchi dal negoziato sulla Brexit nel caso in cui non ottenga quanto richiesto, rivelano chiaramente l’entità degli interessi in gioco e dei potenziali competitors. Per questa ragione, quale sia la strategia che le nostre imprese vorranno sviluppare, sarà fondamentale poter giocare la partita avendo alle spalle, oltre all’Italia, l’Unione Europea. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile esercitare una pressione negoziale efficace».
Still Europeans
Tantissimi britannici vivono nei paesi dell’Unione Europea e, talvolta, ci è capitano di immaginare la loro visione della Brexit. In Italia molti sudditi di Sua Maestà si sono riuniti nel gruppo British in Italy, sorto proprio per difendere i diritti dei cittadini britannici nell’Unione e quelli dei cittadini europei nel Regno Unito sotto la spada di Damocle della Brexit. Abbiamo parlato con Gareth Horsfall, manager in una società di consulenza finanziaria, e abbiamo cercato di vedere il fenomeno Brexit con gli occhi di un inglese lontano dalla madrepatria.
Innanzitutto un parere personale: è favorevole o no alla Brexit? E perché?
Mi definirei un europeista scettico. Comprendo i problemi dell’Europa e della moneta unica, ma credo fermamente che sia meglio rimanere in Europa e provare a forzare il cambiamento dall’interno piuttosto che da fuori. Quindi, per rispondere alla domanda, no, io non penso che la Brexit sia una buona idea, per nulla. La Gran Bretagna diventerà marginale in un mondo globalmente connesso e probabilmente perderà la posizione storicamente rispettata di nazione influente, diventando un paese che dovrà limitarsi a subire scelte di altri.
Perché la Gran Bretagna si è orientata verso questa soluzione? In particolare, quali sono i motivi di natura economica?
Quello per la Brexit sembra essere stato un voto di protesta contro la politica interna inglese, piuttosto che un moto di repulsione contro l’Europa. Penso che ci siano molti problemi in Gran Bretagna che sono comuni all’Italia, originati secondo me dall’impatto dei cambiamenti tecnologici nelle nostre società. La tecnologia ha reso molto più semplice per le aziende operare nelle grandi città e nei loro sobborghi: nel caso britannico, principalmente a Londra. I governi britannici, uno dopo l’altro, hanno invece sempre mancato nel fornire adeguati investimenti per le infrastrutture tecnologiche necessarie nelle città più piccole e nelle zone periferiche, lasciando alla popolazione un senso di isolamento e abbandono. In più, la politica di austerity dell’attuale governo conservatore ha effettuato tagli a servizi vitali per la gente in queste medesime aree. Tutto ciò ha colpito duro economicamente, e il voto per la Brexit è stato un modo per farsi sentire dall’establishment politico.
Ci sono possibilità che quello che si prospetta oggi come inevitabile, in qualche modo rientri?
Penso che l’attuale impasse nel parlamento britannico sia inevitabile. Il voto sulla Brexit ha visto il 52% per il Leave e il 48% per il Remain e il parlamento è diviso grossomodo alla stessa maniera, pertanto abbiamo un parlamento e una popolazione divisa a metà su una scelta che avrà effetti sulle generazioni a venire. Credo che le sole soluzioni possibili siano accettare il piano May (che è stato rigettato 4 volte in parlamento), indire un secondo referendum o uscire con il “no deal”. L’ultimo scenario è potenzialmente così dannoso, che qualsiasi governo chiederà il benestare della popolazione per intraprendere questa strada, in modo da sgravarsi dalla responsabilità politica della decisione. Ci sono state molte bugie e manipolazioni della verità in occasione del referendum, che sono state smascherate solo in parte dopo l’accaduto.
Con la Brexit cambierà il modo di vedere la propria Madrepatria dall’Italia?
Purtroppo sì, ed è già così. Molti britannici che vivono all’estero sono completamente disilluse nei confronti del loro paese, e tanti di loro stanno cercando di ottenere la cittadinanza dei paesi in cui risiedono. Si tratta di una decisione tanto economica quanto emotiva. Parlando con altri britannici che vivono in Italia, ci diciamo che una volta eravamo orgogliosi di rappresentare il Regno Unito all’estero, ma ora ci vergogniamo della situazione. Gli italiani mi chiedono spesso “Perché? Come siete arrivati a questo?” e io ho difficoltà a rispondere. La Gran Bretagna ha il meglio di entrambi i mondi: una posizione europea forte e la propria valuta. È stata sempre un punto fermo in Europa e la sua influenza ha dato benefici positivi sia all’Unione Europea che al Regno Unito, ma con la Brexit la perderemo tutti.
Nel mio lavoro quotidiano vengo a contatto con molte persone a Londra. Il loro pensiero è che la Brexit avrà un impatto sull’economia britannica per anni, qualsiasi sarà l’esito finale della vicenda, perché è stata minata la fiducia nelle istituzioni britanniche nel sostenere lo stato di diritto, nel fornire un luogo pratico per fare impresa. Ci vorranno molti anni e probabilmente molti cambiamenti nel governo per riconquistare quella fiducia. Ma dobbiamo ricordare che i più giovani hanno votato in modo schiacciante per rimanere in Europa, e col passare del tempo sempre più giovani acquisiranno il diritto di voto. La mia ipotesi è che nell’immediato avremo una Brexit per accontentare i brexiteers, ma nel medio-lungo termine il Regno Unito tornerà nell’Unione Europea a fianco delle altre nazioni. O almeno questa è la mia speranza.
Si parla poco del problema scozzese e irlandese, cosa dobbiamo aspettarci?
Scozia e Irlanda sono questioni che non interessano i Brexiteers. La Scozia è stata marginalizzata in ogni modo possibile e i miei amici e colleghi scozzesi, che hanno votato in maniera così schiacciante per rimanere nell’Unione Europea, voterebbero per separarsi dal Regno Unito se ne avessero un’altra possibilità. Credo che se ci fosse un voto ravvicinato per la secessione della Scozia, vincerebbero gli indipendentisti nettamente.
Per quanto riguarda l’Irlanda, la cosa è ancora più difficile. Sembra non esserci altra scelta che ricostruire i muri, se non si trova l’accordo tra Regno Unito e Unione Europea. Nonostante tutti i discorsi sull’uso della tecnologia per il controllo dei confini, nessuno ha mai presentato dei piani concreti, quindi temo un ritorno ai vecchi tempi del conflitto armato. La Brexit potrebbe fondamentalmente fare a pezzi il Regno Unito.