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Per un’imprenditore la propria azienda, soprattutto dopo che ha saputo affermarsi e rappresenta un brand di successo, è una creazione alla stregua di un figlio. Ma questa concezione familiare dell’impresa è inevitabile? E’ destino che il passaggio delle redini dell’azienda dalle mani del suo fondatore, finiscano sempre alle mani della sua famiglia. Sì, o quasi. Ci sono modi e maniere diverse che in Italia sono state poco utilizzate. E quando invece l’azienda finisce in cattive acque? Talvolta ci pensano i lavoratori.

L’imprenditore è un mestiere, o forse meglio dire una vocazione, che non prevede pensionamenti; a meno che davvero si decida di tirare i remi in barca e godersi una meritata vecchiaia lontano da conti, riunioni e clienti. Ma un’azienda sopravvive in longevità alla passione imprenditoriale del proprio creatore e passa di mano. La domanda che un imprenditore solitamente si pone – e molto tempo prima che la passione per gli affari vada scemando – è proprio: a chi lascerò la mia creatura? E in questa fase i ragionamenti possono essere i più svariati, ma tutti con un punto di partenza: la famiglia. Un’azienda è infatti sicuramente un bene personale, una ricchezza che entra a far parte del patrimonio familiare e quindi un bene ereditario naturale. Ma ogni azienda, ogni imprenditore e soprattutto, ogni famiglia, hanno una matrice, una storia e una prospettiva diversa. Quando si parla di eredità familiari le variabili possono essere diverse: quanti figli o eredi bisognerà accontentare? Sono tutti capaci di operare in azienda? Ci sono contrasti pre esistenti tra gli eredi? Qualcuno venderà a sconosciuti la propria fetta smembrando l’azienda? E così via domandandosi.
Solo per fare qualche esempio, è emblematica la vicenda dell’eredità di Bernardo Caprotti, il creatore di Esselunga, che aveva studiato lungamente e accuratamente il problema della propria eredità. Tuttavia, alla sua morte, nell’autunno 2016, si è comunque aperta una complessa disputa legale tra figli, appianata completamente dopo estenuanti trattative familiari. L’eredità di un’azienda prospera e fiorente, può minare la serenità di qualsiasi equilibrio familiare, e questo è un pensiero non da poco per un imprenditore.

Luca Ferri

Nella mente, nei pensieri
Per capire cosa può passare nella mente di chi sta meditando un così complesso passo, come quello del passaggio del comando di un’impresa, abbiamo interpellato Luca Ferri, consulente aziendale specializzato in business coaching, che di situazioni simili ne ha viste parecchie. «Il momento di lasciare è caratterizzato da sentimenti contrastanti – racconta Ferri – tra i quali due, uno razionale ed uno emotivo, che, se non risolti, rischiano di paralizzare o rallentare pericolosamente il passaggio di consegne: da un lato c’è la consapevolezza di doversi far da parte perché il senso di responsabilità lo impone, ed è quello razionale; dall’altra c’è la paura che il passaggio di consegne possa mettere in difficoltà l’azienda e che le persone a cui andrà il potere non siano del tutto pronte a riceverlo, specialmente se negli anni non si è attuato un programma dei crescita specifico per le nuove generazioni. Come si sa, quello emotivo non è facile da controllare, anche perché si allea con il senso di vuoto che coglie chi ha dedicato una vita ad una creatura che richiedeva un impegno costante e totalizzante e che ritroverebbe a dover riempire praterie di libertà che a volte spaventano. Il grosso rischio è che, come detto, il fattore emotivo generi domande che sovrastano la consapevolezza razionale della necessità di farsi da parte e che troverebbero risposta solo con il passaggio di consegne, tuttavia i dubbi in merito ne contrastano lo stesso generando una sorte di profezia autoavverante in cui quotidianamente l’imprenditore si potrebbe trovare a gestire i problemi dovuti proprio al mancato passaggio di consegne, trovando intima conferma che non è ancora giunto il momento di farsi da parte».
Al che l’interrogativo successivo è quello che porta a domandarsi se un imprenditore possa arrivare a pensare prioritariamente al bene della propria azienda, piuttosto che il pensiero di consegnarla a tutti i costi in mani familiari. «Nella mia esperienza ho notato che è raro che nella mente dell’imprenditore non ci sia il desiderio che siano proprio mi membri della famiglia a prendere il timone principalmente nel caso di piccole e medie imprese – prosegue Ferri – mentre diversa è la situazione quando l’azienda ha raggiunto dimensioni tali da imporre accorgimenti che rendono più difficile passare il testimone per semplice via ereditaria. Delegare ad estranei il governo dell’impresa è una scelta difficile che spesso arriva una volta che, la prima scelta, ovvero quella di provare a passare il testimone alla famiglia, non ha funzionato. Raramente mi è capitato di osservare che il passaggio avvenga immediatamente per vie diverse dall’ereditarietà e, in quei casi, erano i figli che avevano deciso per strade diverse da quella dell’azienda di famiglia».
A questo punto è lecito chiedersi se un imprenditore, al momento di ragionare sulla cessione dell’impresa alla famiglia, possa confidare in uno sviluppo di capacità imprenditoriali che sorgono dalla pratica, o aver fede in una sorta di dna imprenditoriale. «Le capacità imprenditoriali hanno certamente una radice innata, sono una sorta di talento che si ha, o non si ha – prosegue Luca Ferri – tuttavia sta alle scelte personali decidere se svilupparle o se lasciarle all’improvvisazione del momento. Ciò vuol dire che non è detto che avendole come talento, automaticamente vengano fuori, ma è quasi certo che se non le si ha, difficilmente si possano creare dal nulla, contrariamente a quanto affermano alcuni miei colleghi. Tuttavia per poterle far emergere è necessario allenarle costantemente per svilupparle e portarle al livello di consapevolezza e padronanza, affinché questi talenti diventino un vero e proprio strumento da utilizzare opportunamente. Non è sufficiente averle, bisogna lavorarci costantemente, così come non è sufficiente nascere con i muscoli per potersi definire un atleta».
Alla fine dunque l’imprenditore decide per la trasmissione dell’azienda attraverso una linea familiare, ma cosa può accadere in caso di famiglie numerose, di una nutrita platea di eredi? Ferri non ha dubbi: «Se la scelta è il passaggio alla famiglia, allora è necessario avviare per tempo un programma che preveda l’osservazione delle attitudini dei figli per poi studiare strategia apposite di potenziamento delle abilità. Questa fase è fondamentale e delicata, perchè non è facile accettare, né per l’imprenditore e né per i figli, che è insufficiente la volontà per poter guidare un’impresa, ma ci vogliono anche le caratteristiche adeguate di personalità e di talento. Ogni erede avrà delle peculiarità che andranno osservate e coltivate, per il bene stesso della persona e dell’azienda, collocando ognuno nel ruolo più adeguato alle sue capacità. In alcune aziende in cui ho lavorato è stato scelto di collocare all’interno della governance, una figura esterna con la funzione di supervisore che aiuti affinché le dinamiche famigliari non incidano troppo sulle dinamiche aziendali, anche perchè sempre di figli, nipoti, fratelli, sorelle e genitori stiamo parlando, e la biografia di un gruppo inizia ben prima dell’ingresso di tutti nel mondo del lavoro. In questi casi se la figura esterna inserita è adeguata, si può attuare una strategia di transizione che accompagni la nuova compagine imprenditoriale fino all’autonomia. La questione forse più delicata riguarda i parenti acquisiti, ovvero cognati e cognate che, non facendo parte della biografia della famiglia potrebbero interpretare ruoli complessi da gestire, e non sono rari i casi in cui rappresentino un ruolo eccessivamente impattante negli equilibri dei fratelli/sorelle, tanto che in alcune aziende il patto di governance prevede che nessuna di queste figure possa entrare a far parte dell’azienda, in nessun ruolo. Per poter trasferire l’azienda ad una famiglia numerosa è quindi necessario adottare una strategia consapevole e opportuna, che aiuti a non cadere in errore quando la parte effettiva impedisce a quella razionale di decidere opportunamente».

Affari di famiglia
Strategie precise quindi, non improvvisazione e fede nell’imponderabile rendono vincenti le scelte sul futuro delle aziende, anche e soprattutto quando si parla di leve del comando. D’altronde gli affari non sono un gioco. E per rimanere in tema possiamo raccontare le vicende di aziende molto famose proprio al vertice mondiale del florido settore dei giocattoli: Lego e Mattel. La Mattel fu fondata nel 1945 da due soci che tennero in mano le redini dell’azienda fino al 1960, quando coi primi grandi successi di vendite dovute alla oggi celeberrima Barbie, si decise di quotare l’azienda in borsa. Da allora Mattel ha perso la conduzione familiare ma è anche cresciuta fino a diventare il colosso numero dell’industria del giocattolo. Almeno fino a ieri. Oggi infatti sul gradino più alto del podio c’è Lego, l’industria danese dei famosi mattoncini da costruzione, creata nel 1932 dal falegname Ole Kirk Christiansen, poi passata di mano nel 1954 al figlio Godtfred che negli anni successivi acquisì le quote aziendali degli altri tre fratelli. Il governo dell’azienda passò nel 1979 quindi al figlio di Godtfred, Kjeld, sotto cui Lego crebbe esponenzialmente, affrontando anche una gravissima crisi che all’inizio degli anni 2000 stava per mandare a gambe all’aria il gruppo industriale. Kjeld face dunque un passo indietro come Ceo, mantenendo però la proprietà dell’azienda e investendo un notevole capitale personale per ripianare le perdite e permettere al marchio di riprendersi. Oggi Kjeld Kirk Christiansen è l’uomo più ricco della Danimarca; Lego dal 2004 al 2016 ha aumentato i suoi profitti del 600% e le voci del mercato dicono che nel mirino delle prossime acquisizioni ci potrebbe essere proprio Mattel, che oltre ad aver perso lo scettro di marchio numero uno nel settore dei giocattoli, nell’ultimo anno ha registrato un calo dei profitti del 13%.
Gestire gli affari in famiglia conviene quindi? Sì, a quanto pare, ma solo se si è incrollabilmente convinti del proprio prodotto, e dunque se la famiglia non eredità solamente la proprietà dell’azienda, ma anche la mission e la vision del fondatore, e il suo desiderio di farla prosperare. In caso così non fosse, e l’obiettivo degli eredi fosse solamente liquidare il patrimonio, avrebbe ragione Massimo Troisi quando diceva che “la ricchezza dei poveri è rappresentata dai loro figli, quella dei ricchi dai loro genitori”…

L’idea no profit
Ma quando il timore che le beghe familiari possano portare a diatribe legali sin dall’apertura del testamento, o che gli eredi possano liquidare senza troppi pensieri il lavoro di una vita? In questi l’imprenditore cosa può pensare di fare? Probabilmente può orientarsi su una scelta che in Italia è al momento poco usata, ma che è una scelta molto diffusa all’estero, soprattutto nel nord dell’Europa. La soluzione in questione è la creazione di una fondazione no-profit, pertanto non votata al guadagno, ma al bene collettivo, che diventi l’effettivo proprietario dell’azienda e che nomini manager adeguati per la sua conduzione. I vantaggi per una scelta in tal senso sono diversi, e il principale è probabilmente proprio quello di favorire l’armonia familiare ed evitare lo smembramento dell’impresa. Questo perché ai parenti non verrebbe vietato l’accesso all’azienda, ma potrebbero essere inseriti nella fondazione senza avere la possibilità di compromettere il patrimonio. La cosa sarebbe possibile perché creando una fondazione, l’imprenditore può scriverne lo statuto, pertanto fissare paletti inamovibili e stabilire, per i manager a venire, una filosofia aziendale che non sarà permesso eludere. Altri vantaggi sono sicuramente di ordine economico e fiscale. Innanzitutto, in quanto ente senza scopo di lucro, i profitti vengono distribuiti in attività di solidarietà oppure in progetti di sviluppo per l’azienda, ma sicuramente in questo modo l’azienda non viene spremuta e liquidata. Dal punto di vista fiscale il beneficio principale è che non si paga l’imposta di successione o donazione, mentre si godrà del trattamento fiscale riservato agli enti no profit. In sostanza l’azienda diventa un’entità in grado di mantenersi e svilupparsi, può impiegare i familiari dell’imprenditore creatore, ma diventa sostanzialmente un ente filantropico.
Una scelta poco diffusa in Italia dicevamo, ma non per esclusiva colpa degli imprenditori che prendono poco in considerazione l’opzione. Esiste infatti anche un problema di ordine normativo. Il codice civile dedica alle fondazioni un trattamento un po’ stringato, riducendone di fatto la possibilità di un allargamento delle loro funzioni con una serie di vincoli che obbligano l’attività a scopi pubblici. Oltre a questo restano grosse incertezza per la regolarità di nomine e attività dei consigli di amministrazione, dei poteri dei manager e delle attività degli strumenti di controllo.
Per tutta questa serie di motivi, in Italia le scelte per la successione aziendale passano ancora attraverso altre scelte di spartizione del bene, che vanno dai patti familiari alle holding di famiglia (che comunque rischiano di ingarbugliare le attività aziendali in caso di dissidi. Un’altra opzione è rappresentata dalle società in accomandita, in cui tutti i diversi rami dell’azienda condividono il controllo della società operativa. Infine un altra e diffusa soluzione è rappresentata dal trust, uno strumento che permette di mantenere l’unità dell’azienda per un lasso di tempo garantito perché prefissato.

Palma Costi

Lavoratori al potere
Ma il problema del passaggio di mano di un’azienda, non riguarda solamente imprenditori alla ricerca dell’erede ideale, né riguarda solo imprese floride e in salute. Gli effetti della crisi economica e finanziaria nel notro Paese hanno infatti duramente colpito il tessuto produttivo delle piccole imprese, spesso determinando situazioni di crisi irreversibile. In queste condizioni si è diverse volte manifestato il fenomeno del workers buyout, cioè l’acquisizione di un’impresa da parte dei dipendenti, in base alla quale questi acquistano la proprietà dell’intera azienda o di una parte di essa, con la conseguente costituzione di una cooperativa. Si tratta di un fenomeno sorto negli Stati Uniti all’inizio degli anni 80 del secolo scorso, a causa della recessione allora in atto, che determinò la chiusura di numerose imprese. Negli anni più recenti il workers buyout ha vissuto un revival in ogni situazione di crisi, dall’Argentina del periodo successivo alla grande crisi della svalutazione del pesos nel 2001, fino all’Europa e al nostro Paese negli ultimi anni.
Negli ultimi anni, in particolare in Emilia-Romagna il working buyout ha creato 56 nuove cooperative e ha salvato 1.200 posti di lavoro. E l’esperienza ha riguardato pressoché tutti i territori provinciali, con un picco a Forli-Cesena con 30 new coop, interessando diversi settori produttivi: il 5% nel settore agricoltura; il 60% nell’industria, di cui quasi la metà nell’edilizia; il 35% nel settore dei servizi. Che il workers buyout non sia però solo uno strumento che ha permesso a molte aziende di traghettarsi attraverso la crisi è l’opinione di Palma Costi, assessore alle attività produttive della Regione Emilia-Romagna. «Credo che il workers buyout possa rappresentare una soluzione non solo per le aziende in crisi, ma soprattutto per risolvere il passaggio generazionale di molte piccole e medie imprese che ad oggi faticano a trovare soluzioni di continuità – dichiara l’assessore – Certo occorre non sottovalutare alcuni aspetti importanti che rendono il meccanismo complesso. In un workers buyout, ogni passaggio deve essere riflettuto insieme ai lavoratori, ogni decisione deve essere presa dopo attenta ponderazione e analisi. Di molti progetti che vengono presentati solo pochissimi diventano progetti concreti. Non in tutti i casi è possibile fare un workers buyout. In aggiunta, il superamento delle criticità precedenti, la presenza di una strategia e delle competenze specifiche necessarie, la motivazione dei lavoratori e lo snellimento di tempi e procedure sono tutti fattori importantissimi e determinanti per la buona riuscita della nuova cooperativa. Le numerose esperienze che abbiamo in regione hanno molto da insegnare. Per questo è necessario promuovere una informazione dello strumento consapevole».