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La prima volta che ho visto Michizono ho pensato che fosse bellissima: perfettamente truccata, imperfettamente centrata. Nuda come Venere che nasce e San Sebastiano che muore. Immobile come il monte Fuji, feroce come la yakuza. Legata come un salame post-moderno mi ha fatto venire in mente che esistono legami che soffocano e altri che liberano. Michizono è hard in ogni senso possibile: erotica, intensa, difficile. Ma Michizono è anche una donna alla mercé di chi ha fatto quei nodi. E chi può dire cosa sia successo prima e dopo l’arte nella vita di Michizono?

Un problema non banale, soprattutto se si è appena firmato un protocollo in cui ci si è impegnati a un uso responsabile dell’immagine del corpo di donne e uomini, magari su iniziativa dell’assessorato alle Pari opportunità del Comune di Reggio Emilia, in collaborazione con un’associazione che si occupa di sostegno alla donne che hanno subito violenza e assieme ad altri soggetti che operano nel nostro settore.

Che fare di Michizono dopo aver incontrato l’ipotesi che le menti che hanno partorito certi crimini potrebbero essersi sentite legittimate da un mainstream che offre – è proprio il caso di dire – una rappresentazione del genere femminile sempre disponibile e rassicurante, nei due ruoli di amazzone o angelo del focolare?

Alla fine Michizono è dove tutti l’avete vista. E una spiegazione la devo soprattutto a quella studentessa che, dopo aver guardato un’ampia collezione di pubblicità con splendidi corpi smembrati, decontestualizzati ed esposti per vendere indistintamente reggiseni, silicone e viaggi in traghetto, si è chiesta: “Cosa vogliono queste immagini da me?”.

Ecco, cara ragazza, io non so cosa vogliano da te quelle immagini, ma so cosa mi ha costretta a fare Michizono: pensare.

Per questo sta in copertina.