Quando il quotidiano svedese Metro ha pubblicato le immagini del nuovo catalogo Ikea per i Paesi arabi, in cui era stata eliminata la figura femminile, forse nessuno immaginava il coro di proteste che si sarebbe sollevato nei confronti della multinazionale. Ben presto la notizia si è diffusa urbi et orbi e l’azienda ha dovuto spiegare che questi inconvenienti si presentano ogni qualvolta Ikea entra in un nuovo mercato, e deve perciò trovare compromessi con leggi, valori e cultura locali.
Parlare di inconvenienti e compromessi mi sembra minimizzare una questione, che oltre ai risvolti etici, ha un certo valore anche dal punto di vista del marketing. In un contesto globalizzato, conoscere un mercato con il suo ambiente demografico, politico-istituzionale e culturale, e adattare le proprie campagne pubblicitarie o i propri cataloghi a queste variabili è in linea con le migliori logiche del marketing. Quando però una scelta strategica rischia di compromettere l’immagine del proprio brand, tradendo la propria mission e i propri consumatori fidelizzati, allora forse è necessario fare una riflessione in più. Perché è chiaro: modificare quel catalogo per Ikea ha significato tradire la sua essenza, che non è solo design e funzionalità, ma anche valori di una società come quella svedese molto attenta alla parità dei sessi.
Ikea non è un caso isolato. Starbucks, per esempio, sui mercati arabi si propone con un logo diverso, modificando quindi addirittura uno degli elementi principali dell’immagine aziendale, pur di non apparire con la figura di donna con i capelli sciolti che campeggia al centro del logo. È lecito chiedersi se non sia possibile immaginare soluzioni più rispettose della figura femminile, che facciano qualcosa di diverso dal semplice assecondare la sensibilità locale che, ai nostri occhi occidentali, francamente appare ricca di stereotipi sessisti belli e buoni. C’è in effetti anche chi ha dimostrato che sacrificare l’etica d’impresa non è l’unica strada percorribile. Si possono per esempio gestire le operazioni di marketing in modo sapiente, lanciando anche un messaggio implicitamente critico verso una cultura poco attenta ai diritti del sesso femminile. È il caso di Olaz, multinazionale della cosmetica che, nei Paesi arabi dove esiste il divieto di mostrare volti femminili scoperti, ha lanciato il concorso di bellezza Most beautiful eyes in Arabia: mi pare questo un buon modo per affrontare a testa alta la censura islamica senza umiliare le donne.
In chiusura, bisogna ammettere che non occorre andare tanto lontano per vedere poco rispettata la dignità delle donne. Per questo, nel nostro piccolo, abbiamo deciso di sottoscrivere il protocollo a tutela della dignità di donne e uomini nella pubblicità, promosso dall’Assessorato alle Pari opportunità del Comune di Reggio Emilia. Perché uno sguardo di genere è auspicabile anche nel marketing dove, peraltro, rappresenta uno stimolo a guardare le cose da un altro punto di vista. Come a dire, creatività.