Tre anni fa, quando dalla finestra del mio ufficio a Berlino vidi i manifestanti di Greenpeace radunarsi di fronte all’ambasciata giapponese e sporcare di rosso la neve intorno a una finta coda di balena, non immaginavo neanche lontanamente che, nel contrasto al fenomeno della caccia a questi cetacei, l’economia del petrolio ebbe più influenza di qualsiasi movimento ambientalista. Nella seconda metà del XIX secolo, infatti, lo sfruttamento su larga scala dell’oro nero e la sua commercializzazione a prezzi comparativamente modesti, ridusse drasticamente la domanda per l’olio di balena, utilizzato allora come combustibile per lampade a olio e in numerose altre applicazioni, tra cui candele, saponette, lubrificanti.
Se non tutto quel che luccica è oro, non tutto ciò che è nero vien per nuocere. Il petrolio ci ha portati a esplorare terra, mare e cielo con un’intensità e una profondità prima sconosciuta; ci ha accompagnati fino all’abolizione della schiavitù nei paesi sviluppati, e ha un ruolo persino in quel quel ricco aroma di caffè che noi italiani amiamo annusare ogni giorno. Non che il petrolio sia una scoperta della rivoluzione industriale: il termine italiano ha un’origine latina, petroleum e pure il corrispondete arabo naft ha una lunga storia ed è rimasto invariato nei secoli. Ma solo nella seconda metà del XIX secolo si resero disponibili tecnologie e know-how per uno sfruttamento su larga scala e, soprattutto, si diffuse una mentalità che riteneva possibile una rivoluzione a motore. Si affermò in quel momento una classe dirigente che, prima di farla, immaginò questa rivoluzione.
Non fu certo facile. Pensiamo alla storia dell’automobile: preceduta da prototipi elettrici o a vapore, l’auto così come la conosciamo nacque nel 1878 ma impiegò una trentina d’anni per affermarsi come mezzo di trasporto privato alternativo alla carrozza. Dovette attendere decenni di investimenti e innovazioni per diventare un prodotto accessibile a tutti i portafogli e per contare su un’estesa rete infrastrutturale: strade, ponti, tunnel, ma anche rivenditori autorizzati, carrozzerie, punti di assistenza e stazioni di rifornimento. Alla fine però la rivoluzione si compì e la realtà finì per superare la fantasia, a dispetto delle abitudini dure a morire e degli interessi difficili da sradicare.
Perciò io oggi voglio immaginare un’alternativa in cui le auto non facciano rumore e non inquinino, facciano il pieno di elettricità verde in tempi brevi sul posto di lavoro, a casa, a scuola, nelle piazze, negli alberghi, e percorrano più di 400 km con una carica. Volendo parafrasare il politico colombiano Enrique Peñalosa Londoño, immagino un’alternativa in cui anche i poveri possano permettersi queste auto, ma, potendo scegliere, utilizzino insieme ai ricchi i mezzi di trasporto pubblici. Un’alternativa in cui i pannelli solari e le turbine eoliche producano in loco l’elettricità richiesta e i moderni sistemi di efficienza energetica possano ridurne considerevolmente la domanda.
Nel 1994 l’allora ministro tedesco dell’Ambiente Angela Merkel, riprendendo una campagna pro nucleare del 1993, asserì che in Germania «anche in una prospettiva di lungo termine, sole, vento e acqua non potranno coprire più del 4% del fabbisogno di energia elettrica». Il fatto che oggi in Germania il 20% dell’elettricità provenga da fonti rinnovabili mi rassicura: l’alternativa che immagino è possibile.