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Non ricordo… Chi è quell’attore che nel ‘73 interpretò Kit in Badlands?! La tipica domanda da girare direttamente a internet. O meglio, a Google. Perché quando surfiamo il web lo facciamo quasi esclusivamente sulla tavola costruita dal colosso americano. E, come rane intorpidite, ci lasciamo cuocere lentamente nel calderone della mancanza di prospettiva. La quantità di risultati proposti da ogni ricerca vi fa sentire immuni alla possibilità di cadere vittime di una manipolazione del pensiero? La situazione è analoga a quella che si verifica di fronte a un planisfero: una simile rappresentazione, per quanto accurata, è pur sempre un’interpretazione soggettiva della realtà e, come tale, veicola messaggi subliminali in grado di influenzare la percezione dei fatti. Il confronto tra la proiezione di Mercatore del 1569, quella di Winkel del 1921 e quella di Goode del 1923 serva da monito ai googleiani convinti: solo il ricorso a una molteplicità di distorsioni è in grado di offrire una prospettiva imparziale sulla realtà.
Invece, sempre più spesso, la distorsione cui ricorriamo è una sola. Vogliamo vedere Martin Sheen in azione nel film di Malick? Google presenta YouTube, sua partner dal 2006. Vogliamo scoprire i meandri delle città in cui viviamo? C’è Google Maps (che – curiosità – ancora utilizza la sopra citata proiezione di Mercatore). Vogliamo installare un’applicazione sul nostro smartphone? C’è Google Play, naturalmente. E poi Gmail, Google+, Google Reader, Google Calendar, Google Docs, Google News: una molteplicità di strumenti per limitare la nostra visione del mondo a un solo punto di vista.
Non che sia tutta colpa di Google. A parte casi eclatanti – come l’atteggiamento compiacente che l’impresa ha tenuto fino al 2010 con il Great Firewall of China (il sistema cinese di censura online, ndr) – il confirmation bias che può derivare dall’utilizzo esclusivo di Google come motore di ricerca dipende dal nostro stesso modo di farne uso: per pigrizia, noncuranza o scarsa dimestichezza effettuiamo le nostre indagini senza mai effettuare il log out. Così facendo, con il tempo, mettiamo Google nelle condizioni di restituirci risultati basati su cronologia, posizione geografica e, se usiamo Google+ o altri social network, sul ranking dei link condivisi dagli utenti a noi connessi. Mentre cerca di semplificarci la vita, Google in realtà ci propone un’unica prospettiva sulla realtà: quella che Google pensa essere la nostra.
Recentemente, la multinazionale è stata criticata per il suo massiccio intervento in Africa dove, mentre sulla carta contribuisce al progresso sociale e culturale del continente fornendo strumenti informativi a prezzi stracciati, in realtà colonizza immense porzioni di un territorio che, almeno online, è ancora vergine.
C’è modo di difendersi? Gli utenti più consapevoli e impegnati ricorrono a motori alternativi come Ixquick, che vanta una politica della privacy senza uguali. Altri possono adottare qualche buona abitudine: ad esempio, ogni tanto, non interpretare gli oggetti attraverso Google Goggles, l’applicazione per la ricerca di un qualsiasi prodotto sul web tramite lo scan della sua immagine. Perché in fondo basta cambiarsi gli occhiali, di tanto in tanto.