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«Le ciglia finte. Dove ho messo le ciglia finte?». Se c’è una cosa che ho imparato nel tempo, è a stare lontano dai camerini di un’artista che sta per debuttare. O a stare lontano dagli artisti, tout court. Questa volta, però, non ci sono riuscito. Perché l’artista sono io, e stare lontano da me stesso è complicato. Con questo corpo, poi, dove voglio andare? Quasi un quintale d’uomo che, tra pochi minuti, salirà sul palco e dovrà convincere tutti di essere divina. Divina, sì, al femminile. Intanto, più che divina, sono terrorizzato. O terrorizzata, sì: meglio iniziare ad abituarsi. E forse lanciare ombretti, creme, correttori e matite in aria – come un piccolo diorama di un vulcano sul mio tavolo che non erutta lava, ma trucchi – può aiutare a scacciare il panico che mi stringe la gola.

E poi, diciamoci la verità: mica me l’ero immaginato così, questo posto. Devo aver visto troppe volte Cabaret, e l’immagine di Liza mi ha sabotato l’ultima connessione cerebrale sana. Ma cosa mi aspettavo? Specchi, piume, urla? Questo camerino assomiglia piuttosto a qualcosa tra un sottoscala e una cella frigorifera. E una delle lampadine che circondano lo specchio come una corona fioca non funziona nemmeno, tanto per rispettare i cliché del locale di quarta categoria. Però il club è carino. Un po’ all’antica, pochi tavoli, un sipario rosso, il palco a conchiglia, un presentatore che – CINQUE MINUTI!, urla lui spalancando la porta, senza bussare, in sincronia perfetta col mio pensiero – si accenderà proprio nel momento di entrare in scena.

E’ tranquillo, lui. Io, invece, mi sento tremare come uno scacciapensieri dimenticato in veranda mentre arriva il tornado. Uhm, buffo: l’ansia mi fa diventare poetico. Poetica. Tocca rispolverare la frase con cui mi calmavo prima degli esami all’università: “Cosa può succedere, in fondo? A parte un clamoroso fallimento con relativa figura da mentecatto?”. Non riesco a pensare a nulla. Non ricordo le parole delle canzoni. La mia testa è come uno schermo nero, spento. Inciamperò nel vestito. Rimarrò immobile sul palco, come un ficus in un vaso. Quanto intenso può essere il panico? TRE MINUTI! «Tesoro, ho capito! Sono grassa e vecchia, ma non sorda». Mh. Esagero. Funziona. Sorrido. E mi calmo, di colpo. Ma sì, funzionerà.

Ho preparato tutto, nei minimi dettagli. Niente playback, le canzoni ho sempre voluto cantarle io. E’ bastata una telefonata a un amico pianista, uomo, brutto quanto basta per fare in modo che il pubblico guardi me, e non lui. E poi, la scelta del personaggio. Volevo una diva jazz, bella e tragica, come Dinah Washington. O del soul, come Etta James, magari con l’amichevole partecipazione del modello di quella pubblicità, l’operaio che faceva impazzire un ufficio intero mentre si beveva una bibita sulle note di I just want to make love to you. Ma l’ostacolo era sempre quello: il mio corpo da bulldog. Simpatico, ma cascante. E allora, la scelta è stata ovvia: Adele. Una bellezza sgraziata. Una bambola diversa dalle altre, che si illumina solo quando canta e che, tra una canzone e l’altra, torna a essere impacciata, e raffinata quanto un minatore. Sono lei. O meglio: lo sarei diventata. La cofana biondo cenere, sistemata con un’ultima molletta. L’abito nero, le scarpe basse (sarò la prima drag queen senza tacchi). Un’ultima generosa ditata di ombretto azzurro. UN MINUTO! Sì, ci sono. Andrai bene, tesoro, mi dice, improvvisamente gentile. Sorrido. E’ ora. Sono diventato un’altra. Autentica a mio modo. In fondo, mi dico, il trucco è ingannarli solo quel tanto che basta a farsi desiderare di più.

illustrazione di Luca Speroni