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Che il precariato sia una condizione diffusa pare che lo abbiano capito tutti. Lo hanno capito i precari e pare che lo stia capendo anche la generazione che precaria non è mai stata.

Ma il precariato non cade dal cielo, è frutto di scelte politiche che hanno colpito tutta una generazione.
Tutta una generazione!? Dice l’ottimista: «Quindi siamo tantissimi! Con la nostra massa critica possiamo far cambiare le cose. Possiamo organizzare manifestazioni e cortei, inventare slogan e scrivere articoli, organizzare perfino uno sciopero generale. Possiamo fare sentire la nostra voce. Siamo il 99%».
Tutto vero (in parte, è quello che sta accadendo), ma forse non è così semplice. Perché non ci si è mossi prima? Il Pacchetto Treu risale al 1995. Non esattamente l’altro ieri. E in questi anni gli effetti del precariato hanno raggiunto un grado di esasperazione massimo. Come nota la Caritas nel rapporto Poveri di diritti, l’indigenza economica porta a una diminuzione non solo di denaro ma anche di diritti essenziali (casa, lavoro, salute, educazione, alimentazione). Perché abbiamo aspettato che fosse così tardi?
Ci sono tante risposte ma una, parziale, potrebbe essere questa: perché il precariato ci scollega gli uni dagli altri. Ci rende invisibili innanzitutto a noi stessi. Ciascuno si sente nella propria particolarissima situazione individuale, che non condivide con altri e che quindi lo esclude da tutti. Facciamo finta di pensare che il precariato sia una condizione comune, ma poi ci comportiamo come se non lo fosse. Non è una strana scissione? Forse in altri tempi si sarebbe detto che non c’è coscienza di classe. Se oggi si preferisce dire spirito di gruppo la domanda è questa: cari precari, pensateci un attimo su e siate sinceri con voi stessi, vi sentite o no parte di un gruppo? Forse il problema è tutto qui.