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L’industriale, con la regia di Giuliano Montaldo, racconta l’epopea di un piccolo imprenditore torinese dei nostri tempi che si barcamena tra debiti e crisi economica mondiale. Trovo significativo, prima di tutto, il fatto che il cinema italiano, molto efficace nella rappresentazione del drammatico, si occupi di una storia del genere: la dice lunga sulle condizioni della categoria. Nel film viene enfatizzato il rapporto con le banche e le finanziarie: amiche dell’impresa quando tutto gira per il verso giusto, aguzzini spietati nel mutato scenario. Parallelamente anche le relazioni sociali e private del protagonista entrano in un vortice autodistruttivo, innescando una serie di azioni e reazioni che non lo aiutano certamente a uscire dal momentaccio. Altro rapporto indagato dal film è quello tra lavoratori e impresa: la situazione è difficile per tutti, ma le distanze fra i ruoli aumentano anziché diminuire, come il buon senso suggerirebbe. Il regista mette in scena un imprenditore che a un certo punto chiede aiuto ai dipendenti, i quali preferiscono voltargli le spalle e decidono di affidarsi ai sindacati, come nella migliore tradizione operaia degli anni ’70. L’imprenditore, tenace e orgoglioso, reagisce e salva l’azienda e quaranta posti di lavoro. Ma c’è un prezzo: il protagonista vende l’anima al diavolo. Che sia un lieto fine proprio non si direbbe, da qualsiasi punto di vista lo si guardi.

Il fatto è che oggi fare impresa, in questo paese, è un vero e proprio atto di eroismo. Il ruolo che si è deciso di ricoprire aprendo un’impresa, non è solo quello del capo di un’attività o responsabile e beneficiario di utili e fallimenti. L’imprenditore oggi ricopre anche un ruolo sociale di vitale importanza, ma la società civile non riconosce questo ruolo né all’impresa né all’imprenditore, che inevitabilmente si ritrova sempre più solo a combattere le difficoltà. Mi viene in mente la figura di Don Chisciotte e la sua leggendaria battaglia contro i mulini a vento. Ma chi è responsabile di questa situazione? La responsabilità è multiforme, trasversale, diffusa: la globalizzazione che ci ha messo nelle condizioni di competere con concorrenti sleali; il sistema Italia, che schiaccia con la burocrazia e le tasse chi vuole produrre; i sindacati che sempre più spesso si mettono tra impresa e lavoratore alimentando il conflitto; la politica che non è in grado di riformare il Paese con una parvenza di stato moderno; i giovani italiani che non sanno mettersi in gioco e scommettere su se stessi; una diffusa mentalità italica di scarso senso civico, assistenzialismo e deresponsabilizzazione. Se la responsabilità del declino dell’economia italiana è in buona sostanza di tutti, allora potremo uscirne solo se tutti decideremo di farlo. A partire dalle piccole abitudini quotidiane, cominciando a fare il nostro dovere da cittadini e lavoratori, ognuno nel proprio ruolo. Non esiste una rivoluzione più efficace di questa.