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La notizia ha fatto scalpore, nonostante da tempo ci fossero avvisaglie di questa rottura: dall’anno prossimo la Fiat uscirà da Confindustria. Lo ha fatto sapere Sergio Marchionne a inizio ottobre tramite un comunicato in cui sottolineava come il divorzio si concretizzerà a livello nazionale dal prossimo gennaio, pur riservandosi l’azienda la facoltà di collaborare, a livello locale, con alcune articolazioni territoriali di Confindustria e in particolare con l’Unione Industriali di Torino.

Ufficialmente un’incertezza insostenibile
Alla base di questa separazione, a detta dello stesso manager, ci sarebbero le posizioni opache e poco chiare dell’associazione di categoria degli industriali, in merito all’interpretazione e alla concreta attuazione dell’accordo interconfederale sottoscritto nei mesi scorsi, e all’applicazione dell’articolo 8 della manovra varata ad agosto dal Governo, che prevede un rafforzamento della contrattazione aziendale e territoriale a discapito di quella centrale. Fiat sostiene che, in ragione della sua natura di impresa multinazionale desiderosa di espandersi nel mondo, non può tollerare una simile incertezza su un tema così importante come la contrattazione aziendale, che a suo dire è essenziale per garantire il dinamismo che il mercato richiede per essere competitivi a livello globale.
Questo episodio, che sicuramente avrà una portata rilevante nella storia futura delle relazioni industriali italiane, induce a fare un paio di riflessioni sul ruolo della Fiat in Italia e sulla funzione che oggi può ricoprire un’associazione di categoria come Confindustria.

La Fiat che verrà
E’ evidente che la casa automobilistica torinese sta cercando di smarcarsi dal suo passato di industria con una base marcatamente italiana, per lanciarsi più agevolmente alla conquista dei mercati esteri. Se e come ci riuscirà è questione sulla quale attualmente non ci è dato sapere. Certo è che una tale strategia implica un agire che è ben diverso da quello che ha guidato nei decenni scorsi il colosso di Torino, il quale – non dimentichiamolo mai – è stato svariate volte tenuto in vita o fatto prosperare da misure anticoncorrenziali, o da leggi e leggine confezionate su misura e ottenute grazie al peso politico di cui l’azienda disponeva. Ma nell’ultimo decennio tutto è cambiato: le agevolazioni di quel tipo sono state vietate dalla normativa europea (God Save the EU!) e in ogni caso non sarebbero più sostenibili per la nostra indebolita economia e quindi bisogna pensare ad altro. Negli ultimi anni il manager italo-canadese ha apparentemente continuato a fare giocare alla Fiat un ruolo altamente contiguo alla politica, ma con una differenza sostanziale: quello che oggi interessa alla Fiat non è più la politica italiana, intrappolata nelle sabbie mobili in cui tutti noi stiamo sprofondando, ma la politica dei paesi che stanno meglio di noi e possono garantire a Fiat un business più redditizio. In questo quadro si situa la sinergia con Chrysler, che ha beneficiato di un sostanzioso incentivo economico della presidenza USA e, così facendo, ha creato un’integrazione tra colossi storici che altrimenti avrebbe richiesto anni.
Badate bene, questa strategia non è da condannare totalmente: un paese serio, anche quando elargisce un provvedimento che avvantaggia un attore del mercato a scapito degli altri, non lo fa a fondo perduto ed esercita uno stringente monitoraggio sull’utilizzo del vantaggio elargito. Ed è così che Fiat ha ripagato quanto ricevuto dal governo americano. Tutto bene fin qui? Forse, ad eccezione del fatto che – come è sfuggito a Marchionne in una sua intervista dell’anno scorso da Fazio – nel quadro di questa strategia l’Italia non solo non è un asset strategico per Fiat, ma rischia addirittura di essere un peso.

Confindustria: che fare?
Ora pensiamo a Confindustria. A ben vedere l’associazione espleta in gran parte la medesima funzione di un sindacato, ossia si fa portavoce degli interessi dell’industria italiana e li difende facendoli valere nelle sedi opportune, ossia nei confronti della politica italiana e dei sindacati dei lavoratori italiani. Ed evidentemente tutto questo a Fiat non interessa più, risultando forse poco rilevante per i suoi piani futuri.
Perciò, mettiamoci l’anima in pace: quello di Fiat non è un capriccio ma un obiettivo ben preciso, e la sua volontà di smarcarsi dall’industria italiana e di collocarsi altrove era già emersa in modo evidente. Sicuramente Confindustria perderà un componente di peso ma, se nei suoi confronti l’azienda torinese lamentava un deficit di rappresentatività, allora tanto meglio così. Anzi, perché non trarre da questa rottura un auspicio per il futuro prossimo, ossia che, persa una grande azienda, Confindustria si concentri di più sulle piccole, le coltivi e fornisca loro un reale supporto – in termini di know-how, di networking e di servizi – per spingerle a diventare grandi? Questo significherebbe davvero perseguire una finalità utile all’economia di questo paese, che è imperniata proprio sulle imprese di medie dimensioni e che avrebbe tutto da guadagnarci nell’aumento della loro dimensione strutturale e del loro peso globale. Inoltre, quella prospettata sarebbe per Confindustria un’eccellente occasione per spogliarsi momentaneamente dei panni di grigio sindacato degli industriali e vestire orgogliosamente la livrea della lobby nel senso anglosassone del termine, ossia di un’istituzione che mira a promuovere attivamente i propri membri, aiutandoli a perseguire il loro successo individuale, che a livello aggregato è anche il successo dell’economia italiana.