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La locuzione latina Horror vacui è sopravvissuta nei secoli, arrivando fino a noi con il significato attuale di “paura dello spazio vuoto, libero da oggetti, disadorno o anche, per estensione, del silenzio”. La teoria aristotelica della natura che rifugge il vuoto ci ha consegnato questa efficace e colta rappresentazione del timore del nulla. Timore dei luoghi non popolati di persone o di oggetti, timore degli spazi nudi, timore dell’assenza. L’orrore per il vuoto si è tradotto in una pratica quotidiana. Con intensità diverse, che vanno dall’appena accennato al pericolosamente patologico, siamo tutti impregnati di questa paura del nulla, che cerchiamo di esorcizzare con il cumulo di oggetti e relazioni umane (in quest’ordine, di solito) che raccogliamo nel corso di esistenze a volte affollate sino all’inverosimile. La necessità pressante di riempire i vuoti ha portato alla quasi scomparsa degli attimi di tregua, che sempre meno frequentemente concedono alle giornate un ritmo pausato. Non si tratta semplicemente di ritmi di lavoro: i momenti destinati all’ozio vivono nell’ansia di un vuoto che minaccia anche il tempo libero. Gli spazi si lasciano invadere costantemente da musiche ad alto volume, le persone si affannano per riempire i silenzi, gli input visivi bombardano occhi e neuroni. Nel frenetico percorso di informazioni che entrano costantemente si trova paradossalmente rifugio. Non nella tranquillità, bensì nell’azione costante, l’animo timoroso del vacui si rilassa. Forse perché fermarsi, sostare negli spazi e nei silenzi, potrebbe fatalmente attivare il pensiero. Un pensiero con il quale non siamo ormai abituati a convivere. Si concepisce il vuoto come uno spazio “libero da oggetti, disadorno”, quando invece il vero Vuoto, quello generato dall’incapacità di pensare e di dare una forma verbale all’esistenza, è la causa effettiva dell’orrore. L’affollamento umano e materiale come risposta in grande stile all’Horror vacui ha inevitabilmente logorato le singole identità: si baratta il contatto con il proprio pensiero in cambio di un contatto continuo con cose e persone. Dimenticando, forse, che quel vacui è una parte integrante di noi.