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Umberto Chiodi nasce a Bentivoglio (Bo) nel 1981, si diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna, vive e lavora a Milano. Oggi è uno dei più promettenti artisti italiani e fa parte della prestigiosa “scuderia” del gallerista Enzo Cannaviello, scopritore di talenti, che ha lanciato in Italia il neoespressionismo tedesco (Baselitz, Penck, Polke) e il maggior esponente dell’Art Brut Jean Dubuffet. Dotato di una solida formazione tecnica e di acume intellettuale, Chiodi ha esposto nella Galleria Michael Shultz di Berlino, nella Galleria Nazionale di Belle Arti di Sofia, in Santa Maria della Pietà a Roma e al Museo Morandi di Bologna.

Su quali tematiche si focalizzano i tuoi ultimi lavori?
Sono una serie di carte sul tema dello stemma araldico vuoto. Un blasone svuotato, simbolo della mancanza di un ordine politico-sociale e del contrassegno di una Nobiltà. Una nobiltà intesa come Bellezza ed elevatezza identificandosi con le quali si potrebbe assurgere. E’ un discorso sull’identità, sulla perdita dell’orientamento, su una forma attiva di oblio. Il foglio bianco o il reale sfondamento equivalgono a uno specchio, trascendendo l’opera stessa. La mancanza effettiva o illusoria di qualcosa di centrale all’interno dell’opera è un’esperienza del vuoto per l’osservatore. L’opera e la visione indotta si negano.

Il vuoto è un’esperienza interiore oppure una concreta manifestazione della fallibilità umana?
Nella società in cui viviamo il vuoto sembra esistere soltanto nella sua forma fallimentare. Il vuoto ci è concesso o imposto come un’assenza spaventosa, non come affrancamento o luogo dell’incontro. Il vuoto interiore oltre a essere uno spazio in cui accogliere l’Altro, è uno spazio in cui costruire se stessi.

Nel 2009 hai realizzato due personali a Milano e Berlino dal medesimo titolo: “Superfetazione”. Cosa intendi con questo termine?
Viviamo in un’epoca di rimaneggiamento fuorviante delle immagini e delle strutture, di decorativismo violento e inquinante a scopo commerciale, di appendici e innesti tecnologici accomodanti, viviamo in un’anomalia fintamente armonizzata. Perciò mi guardo alle spalle e vado ai ruderi, ai frammenti della memoria, alle esperienze sensoriali negate. Attraverso il mio lavoro, un’altra superfetazione, quei semi abbandonati e strappati dalla storia germinano nel tentativo di ritrovare un significato, un valore, un’unità.

L’antropomorfismo ha avuto grande fortuna in epoca medioevale. C’è qualcosa di quel periodo storico che ti appartiene?
Forse il sentore apocalittico e insieme bucolico e fiabesco. La tendenza ad ammonirmi.

Il tuo antropomorfismo è prettamente onirico oppure poggia su basi di realismo?
Quando disegno animali umanizzati o figure polimorfe le mie intenzioni non sono quelle di fare satira alla Grandville; per me è importante dare forma alle pulsioni, alle latenze, ai rimossi che pretendono ascolto e giustizia. Mi interessa la rappresentazione di una duplicità, l’immagine di forze contrarie organizzate in forma allegorica. Sulla natura e contronatura del Mostro trovo spunti sia nella realtà fisica che in quella del sogno; ma anche l’immaginario scientifico dei vecchi manuali di patologia offre molte suggestioni.

Le tue opere riescono ad attrarre in modo magnetico lo spettatore. Come intendi il rapporto con il fruitore?
Immaginerei, in termini faunistici, un grosso animale di fronte alle ali spiegate di una falena.

L’arte è per pochi o per molti?
E’ per pochi ma invoca una fratellanza. L’artista forse dedica la sua opera a quella parte del mondo con cui è in contrasto.

E’ possibile creare una mitologia contemporanea? In cosa la classicità è sempre attuale?
L’unica mitologia possibile oggi è la messa in scena della mitologia stessa. La classicità è attuale quando provoca l’incanto come risveglio.

L’intuizione artistica infantile è spesso sottovalutata, come può essere valorizzata?
Esistono molti laboratori didattici che mettono in contatto i bambini con la storia dell’arte e le mostre. Mi emoziono quando vedo un bambino di fronte alle mie opere e mi dispiaccio se la mia interazione viene impedita dalle circostanze. Il commento del bambino senza sovrastrutture è una prova del fuoco e un raggio di luce nel buio.

Cos’è per te il “grottesco”?
Ciò che ha una forma esasperata, che calca sul limite delle impressioni; ciò che sogghigna mentre descrive il male.

C’è qualcosa che è rimasto vivo nella tua arte e che già era possibile rintracciare nei tuoi primi lavori? Cosa invece è cambiato radicalmente?
Credo sia importante guardare al corpo dell’opera dalla sua radice, per giustificarne la forma anche attraverso l’equilibrio. I miei primi disegni erano raccolti in forma diaristica, si legavano fortemente all’autobiografismo, all’agiografia e all’immaginario delle fiabe.
L’evoluzione del mio lavoro risente della mia apertura al mondo, alimentata dal trasferimento in una metropoli, dal rapporto con una galleria e dal dibattito artistico contemporaneo.