Skip to main content

«Noi commercianti siamo la spina dorsale dell’economia, ma troppo spesso ce ne dimentichiamo». È questa la riflessione da cui è partita Donatella Prampolini Manzini per improntare le linee guida del suo mandato come presidente provinciale di Confcommercio Reggio Emilia. E l’impegno per restituire dignità ai commercianti, troppo spesso considerati «un male della società», e per dimostrare la serietà e la preparazione della categoria, sta dando i suoi frutti.

Facciamo un passo indietro. Quali sono state le sue esperienze salienti prima di arrivare alla carica di presidente?
Come premessa doverosa, devo ammettere che nel panorama associativo io sono una mosca bianca, in quanto sono arrivata a ricoprire la carica di presidente provinciale dopo soli quattro anni dall’ingresso nel sistema, avvenuto nel 2005. I primi passi li ho mossi nella Federazione di settore Fida-Confcommercio (Federazione italiana dettaglianti alimentari), riferimento per l’attività svolta dall’azienda di famiglia che gestisce supermercati di quartiere. Sono arrivata con grande entusiasmo e voglia di imparare, tanto che dopo un anno ricoprivo già la carica di vicepresidente nazionale, riconfermata proprio in questi giorni. Nel frattempo ho iniziato anche il percorso nell’associazione provinciale, anche se è proprio con la federazione nazionale che ho avuto dapprima modo di confrontarmi su tavoli importanti, come quelli ministeriali e sindacali.

Viviamo una crisi economica. Quali proposte ha Confcommercio al fine di favorire la ripresa dei consumi?
La ripresa dei consumi arriverà quando il mercato del lavoro riprenderà, per cui a livello nazionale ci battiamo per cercare di ridurre la pressione fiscale che oggi disincentiva gli investimenti e quindi la ripresa. È ovvio che per portare avanti una seria politica di riduzione della pressione fiscale, non ci si può esimere dalla riduzione della spesa pubblica e dal rigore nei conti pubblici, che non vuol dire tagli trasversali su tutto, ma ricerca delle reali inefficienze. A livello locale, oltre alle strategie condivise sugli ammortizzatori sociali e le moratorie, stiamo lavorando molto sul finanziamento alle imprese, sulla formazione e la ricerca di innovazione del terziario e sul marketing territoriale attraverso la costituzione di consorzi tra commercianti.

Il rapporto fra il commercio tradizionale o specializzato e la grande distribuzione è ancora conflittuale?
Confcommercio nazionale ha fatto la scelta di accogliere tra i propri associati sia la grande distribuzione che il piccolo dettaglio, dimostrando innate doti di equilibrismo. È ovvio che questa forzata convivenza a volte è molto difficile da accettare e crea fibrillazioni. È sbagliato ritenere che noi siamo a priori contrari alla grande distribuzione, ma riteniamo strategico trovare e difendere a tutti costi un equilibrio tra i vari format di vendita. Il mondo è andato avanti e ne prendiamo atto, ma sarebbe sbagliato delegare al solo mercato le scelte strategiche. I negozi di vicinato hanno una valenza sociale che va al di là della semplice vendita di beni. L’equilibrio che consenta la sopravvivenza di negozi che coprono bisogni diversi dei consumatori dovrebbe essere la priorità della politica. Quando non è così, possono nascere conflitti.

Come si possono tutelare i piccoli negozi di quartiere rispetto all’emergere dei centri commerciali?
Da anni ribadiamo la necessità di specializzare la nostra funzione e muoverci in gruppo come fossimo dei centri commerciali naturali. Specializzare la funzione non significa esclusivamente fare delle boutique, ma capire che la nostra vocazione di piccoli negozi è dare un servizio quotidiano e personalizzato ai consumatori. Questo passa attraverso la formazione, l’innovazione, l’aggiornamento, il ricambio generazionale, le nuove tecnologie. Soprattutto passa attraverso la professionalizzazione, perché per stare sul mercato occorre essere imprenditori.

Il centro sta subendo un’emorragia di negozi e locali. Come si può far fronte al fenomeno?
I problemi del centro storico, da cui derivano le chiusure delle attività commerciali, sono molteplici e solo con un approccio complesso si possono risolvere. Commercio, residenza e amministrazioni devono affrontare in maniera sinergica i temi che hanno portato allo stato attuale la città, senza autoassolversi. Le responsabilità sono da dividere in maniera equa, a partire dalla programmazione commerciale che ha fatto nascere troppo centri commerciali, dalla residenza che ha lasciato la città e dai commercianti che non hanno investito fino in fondo sulle attività, preferendo talvolta vendere.

In città si possono conciliare le esigenze di divertimento e quelle di riposo?
Mai come in questo caso, volere è potere. I residenti e i commercianti hanno lo stesso obiettivo, cioè quello di riportare la città a essere un luogo sicuro, vissuto e amato. A volte si perseguono strade diverse, ma basterebbe un po’ di tolleranza da parte dei residenti e maggior rispetto da parte degli avventori. Una città mortorio è una iattura per il commercio, ma anche per i proprietari degli immobili che vedono il proprio bene svalutarsi. Il cerchiobottismo usato fino ad oggi non ha fatto altro che scontentare tutti ed esasperare i toni. Se l’amministrazione ritiene strategico far vivere la città, deve permettere le aperture serali, pretendendo però il rispetto delle norme.

Com’è la condizione femminile nel mondo del commercio?
Il mondo del commercio è fatto in maggioranza da donne. Nelle imprese familiari sono spesso le donne a essere l’asse portante, sono donne la maggioranza delle commesse, così come le consumatrici. Spesso i dirigenti di categoria sono uomini perché le donne preferiscono rimanere in azienda. Detto questo, sono un po’ allergica alle questioni delle quote rosa. Se le persone sono capaci e hanno spirito di sacrificio, non ci sono barriere che possono fermare i successi professionali.