Qualche tempo fa, in pieno boom dell’informatizzazione dei sistemi aziendali, una efficace pubblicità televisiva proponeva un’originale storiella: due investigatori della polizia, con tanto di impermeabile alla tenente Colombo, si recavano presso la sede di una grande ditta in cui era stato denunciato un furto. Effettivamente tutti gli ingombranti mobili dell’ufficio erano scomparsi, sostituiti (e non rubati) da un unico piccolo server, come dichiarava sornione un giovane impiegato. La digitalizzazione degli archivi pubblici e privati è stato, ed è, un fenomeno estremamente veloce che, nella sua rapidità, ha insinuato nell’immaginario collettivo l’idea di non dover mai più aver a che fare con montagne di documenti e schedari gargantueschi. Si è venuta a creare la non del tutto infondata convinzione che, con i comodi database digitali, sia iniziata un’epoca in cui lo spazio fisico, sostituito dallo spazio digitale, è divenuto una variabile assolutamente secondaria: se un piccolo server può sostituire un intero ufficio, che bisogno ci sarà mai di luoghi fisici in cui depositare i dati?
Considerando la questione si deve, come necessaria premessa, citare l’attualissimo fenomeno del cloud computing. Il primo a dare risonanza a questo termine e a questa visione dell’uso di internet è stato il CEO di Google, Eric Schmidt, nella seconda metà del 2006. Per cloud computing si intende un modello ibrido di sfruttamento delle risorse offerte dalla rete: la premessa basilare consiste nell’assumere che in questa nuova architettura i data service (servizi hardware) e le funzionalità offerte (servizi software) devono risiedere prevalentemente sui server web (le ‘nuvole’, appunto) piuttosto che esistere fisicamente sui singoli computer connessi in rete. Lo scenario è quindi quello di un utente può accedere alla ‘nuvola’ giusta, disponibile in rete, che gli fornisce i servizi e i dati necessari. Con il risultato di avere tutto ciò di cui si necessita ovunque. Il “cloud computing” è il primo passo verso il sogno di poter eliminare il famoso Pc, proposto dai fautori del cosiddetto ‘open distributed computing’, inteso come utilizzo del software non mediante applicativi residenti sul proprio Pc ma fruibili via rete. Si fa strada l’idea che lo spazio fisico del proprio terminale, nella fattispecie i supporti di memoria, possano essere eliminati. Attraverso il cloud computing si offre a una grossa fetta degli utenti addirittura la possibilità di eliminare il residuo spazio fisico necessario all’immagazzinamento privato.
Ma dove vanno a finire questi dati? Quella struttura vagamente astratta che viene denominata “rete” non ha anch’essa un “posto” fisico? Con l’avvento dell’era digitale, gli spazi necessari all’archiviazione dei dati non sono scomparsi, si sono semplicemente ridotti. Fanno quasi tenerezza, ora, le immagini degli enormi elaboratori degli anni ’70, giganti di decine di metri cubi capaci di macinare quantità di dati che oggi risultano ridicole. Un hard disk moderno misura pochi pollici e immagazzina, con l’aiuto di piccoli processori e altri minuscoli supporti, centinaia di gigabyte. Tuttavia, il trasferimento e l’uso di dati si è mostruosamente moltiplicato negli ultimi tempi. Con il cloud computing e l’aiuto di piccoli, ingegnosi terminali è forse possibile eliminare le nostre ‘torri’ casalinghe, ma i dati archiviati e gli strumenti per elaborarli hanno solo subìto un trasloco. E’ sufficiente osservare che, nelle piccole aziende che dispongono di un proprio server, il suddetto occupa un certo spazio, che può variare dal discreto angolino fino allo stanzone apposito. Resta solo da immaginare lo spazio occupato dagli strumenti necessari ai gestori di server mondiali: un megabyte occupa uno spazio talmente piccolo da essere quasi inconcepibile. Una torre server per piccole aziende (massimo storage interno di due terabyte) è alta però circa mezzo metro.
E le grandi aziende, che invece di 25 dipendenti ne contano migliaia? Simone De Feo, consulente informatico presso Sailing, si occupa proprio di database e appare molto convinto quando sostiene che “lo spazio per l’immagazzinamento delle informazioni è diventato ormai il bene più importante per le imprese. Si è creata la percezione che lo spazio digitale abbia sostituito lo spazio fisico, ma quest’ultimo è in realtà diventato una prerogativa fondamentale quando si parla di sistemi informatici e di dati da archiviare.” Tra le mirabolanti prospettive del cloud computing e la realtà oggettiva si può effettivamente rilevare una discrepanza di percezione. L’informatizzazione dei sistemi, che ha realmente aperto una nuova era della gestione dei dati, non ha cancellato la necessità di possedere spazi fisici: le grandi aziende conoscono la realtà dei fatti e corrono ai ripari acquistando interi edifici che diventeranno presto dimora degli hardware necessari per far funzionare le reti interne ed esterne e gli archivi digitali che crescono quotidianamente.
Da un certo punto di vista, tutto ciò può apparire addirittura confortante: le parole che appaiono e scompaiono così magicamente dai nostri schermi possiedono anch’esse un luogo, seppure piccolissimo, di esistenza fisica. La realtà tangibile dei chip, per quanto scomoda e a lungo andare persino ingombrante, riporta alla concretezza il lavoro e la creazione delle dita che battono sulla tastiera. Le infinite potenzialità dell’informatica non si perdono quindi in una totale astrazione: per quanto possa l’evoluzione tecnologica, le nostre mani possono ancora toccare il prodotto dei nostri neuroni.