di Federico Parmeggiani (dipartimento di Diritto dell’Economia, Università di Siena)
Ultimamente si è parlato molto di riforma fiscale, in seguito alla proposta inizialmente avanzata dal governo di ridurre le aliquote delle imposte sui redditi, optando per un sistema a due soli scaglioni, presumibilmente 23% e 33%. Il dibattito sull’opportunità di una simile riforma è stato stroncato sul nascere dai numeri della finanza pubblica, che non consentono margini per una riduzione della pressione fiscale, al punto che il Governo medesimo ha dovuto fare retromarcia dopo pochi giorni dalla proposta.
Resta però il fatto che in Italia la pressione fiscale è estremamente elevata e che, oltre al mero ammontare delle aliquote, un’altra componente che grava pesantemente sulle tasche degli italiani è costituita dalle spese indirette, ossia quelle sostenute per conformarsi alla normativa vigente.
Tali spese sono particolarmente onerose perché la legislazione italiana in materia si presenta contorta e opaca, tale da rendere necessario nella maggior parte dei casi il ricorso ad un commercialista o ad altre figure professionali, le cui retribuzioni sono una componente costante delle uscite dei privati per quanto riguarda il fisco. Sempre in ragione di tale opacità delle norme, il contribuente vive spesso nel costante timore di avere commesso errori nella compilazione della documentazione o nella dichiarazione dei redditi ed è persuaso quindi ad aderire per sicurezza ad ogni tipo di sanatoria o comunque a pagare più di quanto dovuto per non incorrere in ipotetiche sanzioni.
Alla luce di questo contesto poco confortante, una riforma che si potrebbe e dovrebbe fare in abito fiscale, senza il timore che la scure dei conti pubblici si abbatta sui progetti in corso di emanazione, consiste in un’opera di sistemazione e razionalizzazione delle norme vigenti.
In primo luogo si potrebbe semplificare la disciplina di alcune imposte, in particolare quelle sui redditi, la cui quantificazione è a dir poco complicata. Si potrebbero infatti raccogliere e sintetizzare le decine e decine di leggi in materia in un nuovo provvedimento legislativo che possa fungere da unica fonte normativa di riferimento, evitando così la perniciosa frammentazione della disciplina dei tributi e la sua disseminazione in diverse leggi, spesso tra loro contraddittorie.
Inoltre potrebbe essere semplificato anche l’accertamento dei tributi, mettendo ordine nelle competenze dei vari enti statali e locali. In tal senso si potrebbe ad esempio pensare, in un’ottica di federalismo fiscale, di demandare l’accertamento ad enti più vicini alla realtà economica di riferimento, lasciando agli organi statali la facoltà di intervenire sostituendosi agli enti gerarchicamente inferiori solo qualora gli accertamenti di questi non siano stati efficaci, ovvero quando l’oggetto dell’accertamento travalichi per la sua ampiezza la dimensione prettamente locale.
Un dibattito a parte meriterebbero poi due ambiti controversi come l’IRAP e gli studi di settore. Da tempo è chiesta l’abolizione di questi due elementi iniqui del sistema fiscale italiano, particolarmente vessatori nei confronti delle piccole e medie imprese. Sicuramente appare come minimo necessaria una revisione che mitighi il loro potenziale altamente distorsivo, che oggi finisce per essere una sanzione nei confronti di chi opera in modo virtuoso e rispettoso della legge e un incentivo a tenere condotte elusive.
Se questi provvedimenti renderebbero presumibilmente meno onerosa la quantificazione di ciò che è dovuto a titolo di imposta, sono anche prospettabili altri provvedimenti che consenteribbero un più sereno rapporto col fisco, razionalizzando l’applicazione delle misure sanzionatorie e mitigando quindi il timore di essere soggetti a pene ingiuste. In primo luogo andrebbe perfezionato l’istituto dell’interpello, predisponendo uffici pubblici specializzati che abbiano il compito di ricevere le domande dei contribuenti e di fornire loro entro tempi ragionevoli risposte esaustive, che diano certezza riguardo a quesiti di natura sostanziale o procedimentale. Come sottolineato, l’istituto esiste già, si tratterebbe solo di massimizzarne l’efficienza.
Inoltre qualche modifica va apportata anche al processo tributario, investendo in misura sempre maggiore sulla specifica professionalità dei giudici e correggendo le sanzioni in modo che siano effettivamente aderenti alla violazione commessa. Infine, come chiusura di un nuovo contesto regolatorio, sarebbe bene rendersi conto che la durata biblica del contenzioso in materia tributaria arreca danno sia ai privati che allo Stato, avendo entrambi interesse ad una pronta definizione e corresponsione di quanto dovuto. In questo ambito quindi sarebbe opportuno introdurre strumenti che consentano un ricorso sempre maggiore alla composizione stragiudiziale delle controversie, evitando così lo spreco di moltissime risorse che, a pensarci bene, non sono altro che ricchezza italiana che si volatilizza.