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Certi libri non finiscono. Ritornano come le stagioni. Si nascondono nel paesaggio e lo rivelano: tutto ciò che vediamo è foresta di simboli, annunci di un vissuto che ci portiamo dentro, lasciando un sentiero, dietro. Mi capita spesso, a fine anno, al confine d’autunno e inverno, di tornare a mettere le mani su certi scaffali, togliere la polvere da questi libri, quando il giorno mostra le ombre e l’aria intorno si fa viola, come succede nel capolavoro di Silvio D’Arzo, Casa d’altri (Einaudi), dialogo continuamente interrotto tra due solitudini, tentativo estremo di dire l’indicibile. Il cammino svalica il crinale d’Appennino e si ferma davanti a un cimitero, dove Guglielmo, vedovo e boscaiolo, osserva disperato, mute e immutabili stelle, come racconta Carlo Cassola ne Il taglio del bosco (Mondadori). E un’altra montagna, quella scabra dell’Altopiano di Asiago, ferita dalle bombe della Grande Guerra, ora attraversata dai recuperanti, uomini che scavano i resti di ferro, rame e piombo delle battaglie, mentre scoprono ossa, scarpe e piastrine di soldati letteralmente dispersi, in alto un cielo dove cantano i cuculi, e s’arrampica il fumo dei camini, nella prosa nuda e scolpita nel tempo, con la precisione di chi riesce ancora a nominare le cose e rifare il mondo, quello di Mario Rigoni Stern, ne Le stagioni di Giacomo (Einaudi).