
Lo stadio del Barcelona (foto da Flickr – DjLucifer – cc-by-2.5)
> di Daniele Paletta
Mès que un club. Ovvero, oltre un secolo di storia civile e sportiva riassunto in quattro parole, rigorosamente in catalano. Dietro a questa frase si dischiude il mondo del Futbol Club Barcelona, una squadra di calcio che – secondo le stime del 2010 di Sport+Markt – conta oltre 57,8 milioni di fan in tutta Europa. Un team che, solo in Spagna, ha conquistato il cuore del 26 per cento dei tifosi.
Si potrebbe pensare che una squadra simile, una vera e propria istituzione, ricada sotto le stesse logiche di tante formazioni di alto livello, tra contratti milionari per le sponsorizzazioni e grandi gruppi a reggere le sorti finanziarie della società. Le cose, in realtà, non stanno esattamente così. Il Futbol Club Barcelona rappresenta un vero e proprio unicum nel mondo del marketing sportivo per almeno due aspetti: l’aver rinunciato fino alla stagione 2013-2014 ad avere un logo corporate sulla parte anteriore delle divise della squadra, e il poter contare sull’azionariato popolare come una delle principali fonti di guadagno, con oltre 172mila soci. Due aspetti senz’altro non comuni per un team di tale livello; e per spiegare entrambe queste presunte bizzarrie, occorre fare un passo indietro, fino alle traversie del Novecento spagnolo e alla difesa dell’identità culturale catalana.
La lingua e la cultura della Catalogna sono state a lungo censurate sia durante la dittatura di Primo de Rivera che durante quella ben più lunga di Francisco Franco. Ed entrambi hanno trovato le resistenze più forti proprio nel Barcellona, che nel 1918 aveva aderito a una petizione per l’indipendenza della Catalogna e tre anni dopo aveva redatto lo statuto societario in catalano. Fin dai suoi primi anni, il Barça aveva cercato un collegamento forte tra la pratica sportiva e le vicende socio- culturali del paese: “Sport e cittadinanza”, diceva Josep Sunyol, presidente del club e membro del parlamento, ucciso nel 1936 durante la Guerra Civile. Nei lunghi anni della sua dittatura, poi, Franco ha cercato in ogni modo di ridurre l’importanza del Barcellona per la società catalana, obbligando perfino il team a rimuovere le quattro strisce rosse della bandiera dal gagliardetto. Ma tutto questo non ha fatto che aumentare il legame fortissimo della popolazione con la squadra, diventata un simbolo di resistenza. “Mès que un club”, appunto.

Leo Messi con la maglia del Barcelona
Ed è proprio per questo che, quando la Spagna è uscita dalla dittatura, il Barça ha voluto confermare la sua attenzione alla sociale, sostenendo numerose associazioni di volontariato, creando una Fondazione e arrivando a sostenere l’Unicef, infrangendo per lei lil tabù estremo: la sponsorizzazione sulla maglia della squadra.
Fino al 2006 nessun marchio era stato usato come jersey sponsor: ai tifosi sarebbe sembrato un modo per desacralizzare i colori blaugrana del club. Solo per il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia è stata fatta un’eccezione. Non si trattava di una novità in senso assoluto (il Catanzaro, il Brescia e il Piacenza avevano già fatto la stessa scelta, per una stagione), ma per il Barcellona questa rivoluzione custodiva un sottotesto potente: per gli sponsor ci sono altri spazi, ma quello più importante – quello a cui tutti ambiscono – non è in vendita.
Nel novembre del 2013, poco dopo aver concesso per la prima volta le divise a un marchio – la Qatar Airways, grazie a un contratto con Qatar Sports Investments che dava la possibilità di includere un nuovo logo sulla maglia a partire dal 2013 – il Barcellona ha rinnovato l’accordo con l’Unicef: il logo è stato spostato nella parte posteriore della samarreta blaugrana, e fino al 2016 il team verserà all’ente circa 1,5 milioni di euro all’anno. Una sponsorizzazione al contrario, ma dalla portata simbolica enorme.
Ed enorme è anche il ritorno d’immagine di cui può beneficiare la società. L’accordo ha permesso al Barça di mantenere la propria brand identity di squadra attenta al sociale, salvaguardando anche il rapporto con i sostenitori e i soci. Un rapporto che il Barcellona non può permettersi di sottovalutare, dato che è proprio grazie all’azionariato popolare che la squadra ha potuto permettersi i giocatori che l’hanno resa gloriosa. Oltre ai culers, semplici tifosi, e ai penyes, membri di fan club che però possono anche dare sostegno finanziario alla società, esistono i socios veri e propri. Sono 172mila, da soli potrebbero popolare una città di medie dimensioni. E per convincere i tifosi a ricoprire questo ruolo, il Barcellona offre loro vantaggi importanti: chi è socio può partecipare alle assemblee generali, dove si elegge il presidente e si può modificare lo statuto societario oltre a proporre progetti per il club. Ma non solo: si possono ottenere sconti considerevoli su biglietti e abbonamenti, oltre a riduzioni sul costo del merchandising e l’abbonamento gratuito alla rivista della società. Senza contare, poi, il benefit più importante: la sensazione di poter essere parte attiva nelle decisioni della società calcistica, e di poter contribuire a determinare il destino della propria squadra. Ecco perché, più di molti altri suoi simili, il Barcellona è molto più di un semplice club.