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di Tatiana Salsi
foto di Federica Troisi

11_optLa dignità è vita. Ai casi di povertà cronica si aggiungono i nuovi poveri (disoccupati, genitori single, pensionati), ma non solo. C’è una povertà emergente e ancor meno visibile, che restituisce un’istantanea di un Paese pesantemente segnato dall’indigenza: è quella dei working poors, cioè poveri pur avendo un lavoro. Tra loro ci sono molti professionisti con una laurea in tasca ma che guadagnano meno di un facchino, si sarebbe detto una volta. È la prova lampante del cortocircuito tra il nuovo mercato del lavoro e la crisi della nazione, che non è più capace di garantire un diritto costituzionale: quello di avere un lavoro e, grazie a questo, di assicurarsi un’esistenza dignitosa. Invece c’è chi non è disoccupato e tale non può definirsi, ma non arriva a guadagnare più di poche centinaia di euro al mese. Ai 3 milioni 140mila inoccupati in Italia si devono quindi aggiungere anche loro. Molti rimangono schiacciati dal costo della vita, dal pagamento di un mutuo: lo stipendio non basta e le difficoltà economiche crescono portando con sé problemi nelle relazioni famigliari e sociali. I working poors sono sempre più numerosi e, nei casi più disperati, si mettono anche in fila alla mensa della Caritas.

«Non sono la maggioranza di coloro che si rivolgono a noi – spiega Teresa Manelli, coordinatrice del Centro d’ascolto Caritas di Reggio Emilia – perché hanno difficoltà ad avvicinarsi. Molte di queste persone nel giro di due o tre anni scivolano nella povertà più estrema, come per un effetto domino: perdono un lavoro stabile, la casa e anche relazioni famigliari e sociali. Per i working poors la Caritas è intesa come l’ultima spiaggia e non come un luogo dove chiedere aiuto. Queste persone si nascondono, ma ne stiamo intercettando sempre di più attraverso le parrocchie, o grazie a vicini di casa che si accorgono delle difficoltà».

È capitato, per esempio, che una volontaria si accorgesse che due bambini non si erano iscritti come ogni estate al campeggio. «Un fatto apparso subito strano all’educatrice – spiega la Manelli – perché quei bambini non si erano mai tirati indietro dalle iniziative parrocchiali. Le loro risposte evasive hanno portato la volontaria a contattare i genitori. A fatica, i due hanno spiegato come la loro vita fosse cambiata. Il padre si è trovato a dover reggere la famiglia con un lavoro interinale, con contratti di due mesi. Così una famiglia della classe media ha cominciato a scivolare nella povertà. Proprio in questi casi è importante aprire un canale di comunicazione». Per dare un aiuto la parrocchia si è organizzata e una colletta ha permesso ai due bimbi di partecipare al campeggio. Ma le storie di queste nuove povertà non sono rare. C’è la disavventura di un agente di commercio di 40 anni, laureato e con un curriculum di tutto rispetto, che si è trovato improvvisamente con un lavoro precario e discontinuo, un mutuo da pagare e una casa andata alla moglie e ai figli dopo la separazione. «È stato accolto nel dormitorio. Non aveva più motivazioni, viveva una grande difficoltà psicologica – ricorda la responsabile Caritas – Non riusciva più a far fronte alle spese». E c’è anche la storia di un ragazzo che si presentava alla mensa dei poveri indossando una divisa da lavoro. «Ci ha spiegato – precisa Teresa Manelli – di avere sì un lavoro, ma di non guadagnare più di 300 euro al mese e di ritrovarsi con una madre malata da accudire che non aveva ancora maturato la pensione. Per lui, come per le persone che si trovano in situazioni analoghe, abbiamo messo a punto un progetto di sostegno e preparato una tessera per la mensa di tre mesi».

I working poors alimentano così il circolo vizioso della crisi: colpiti dal disagio, non sono più in grado di essere consumatori capaci di far girare l’economia. Mentre molti altri tagliano le spese, i working poors non possono permettersi neppure questo. È così che la vergogna diventa un fenomeno sociale. Solo qualche anno fa, nel 2009, in Giappone si è conosciuto il disastro della disoccupazione. Una piaga che prima di allora non aveva mai colpito il Paese con risvolti così gravi. Chi aveva perso il lavoro si ostinava a percorrere la strada verso l’azienda, in giacca e cravatta, come sempre aveva fatto. Un infinito replay delle vecchie abitudini da lavoratore per nascondere alla famiglia la vergogna di non avere più un’occupazione. Il gran numero di licenziamenti provocò la nascita di vere e proprie tendopoli nel cuore pulsante di Tokyo. E questo è solo un esempio per spiegare come la mancanza di un lavoro possa disgregare le relazioni famigliari e minare le forze piscofisiche. Anche in Italia la famiglia cede sotto la scure del disagio lavorativo ed economico. Aumentano i casi di adulti soli. Nel 2012 l’11,5% delle persone che hanno chiesto aiuto alla Caritas reggiana era separato o divorziato. La povertà è diffusa, ma assai poco condivisa e la vergogna è il sentimento dominante tra chi si trova catapultato in una condizione di indigenza. E sono anche persone insospettabili, del ceto medio, con alle spalle un’importante esperienza lavorativa, a trovarsi respinti ai margini della società. Per loro chiedere aiuto è quanto mai difficile. Licinio Paterlini, responsabile della mensa Caritas, ne ha ascoltate tante di storie sfortunate, durante i suoi 19 anni di servizio. «Molti entrano qui dentro con grande difficoltà – dice – e la prima cosa che fanno è quella di raccontare la loro storia. Cerchiamo di mettere tutti a loro agio, qualcuno rimane a pranzo con noi, cerca il dialogo. C’è stato anche chi si è offerto di dare una mano, ma con il passare degli anni la conflittualità tra i circa 200 utenti giornalieri è aumentata, soprattutto tra nazionalità diverse».

E così, nuove indigenze si intrecciano a quelle di sempre: secondo l’ultimo rapporto Istat, nel 2012 la percentuale di poveri assoluti è salita all’8% rispetto al 5,7% di dodici mesi prima, facendo segnare il record negativo dal 2005. Sono 9 milioni 563mila, invece, le persone in uno stato di povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Un’emergenza che in molti si ostinano a non vedere.