Avere un’idea, confrontarla con gli altri e metterla alla prova del mercato è una sfida che comporta il rischio di sbagliare, dover cambiare rotta, ridimensionare i propri progetti e, nel peggiore dei casi, abbandonarli del tutto. Fatti salvi i casi fraudolenti, il fallimento non dovrebbe essere un dramma: perché nel nostro paese lo diventa?
Purché sia veloce
I distretti ad elevata innovazione, un esempio su tutti la Silicon Valley californiana, sono dominati dalla cultura del fail fast (fallisci rapidamente, ndr). L’importante non è non fallire mai, ma farlo velocemente, in modo da poter ripartire, con altrettanta velocità. «Nella cultura di impresa anglosassone – spiega Pierluigi Saccardi, vicepresidente della Provincia di Reggio Emilia – in particolare negli Usa, sia chi intraprende sia chi investe in start-up sa che le possibilità di successo sono poche, meno di una su dieci. È quindi diffusa la consapevolezza che i fallimenti sono possibili, e non se ne fa un dramma. D’altronde capita anche che chi investe in una start-up che ha successo moltiplichi i suoi investimenti di centinaia di volte». Per i venture capitalist della Silicon Valley il fallimento non è un dramma, anzi è addirittura esaltato, perché considerato fisiologico, una tappa fondamentale del processo d’apprendimento e di innovazione. Gli sviluppatori di Angry Birds, per esempio, hanno creato circa 50 giochi prima di arrivare agli uccellini che sono diventati un successo planetario. Naturalmente se il distretto tecnologico per eccellenza, quello che ha visto la nascita dei giganti mondiali come Google, Facebook, Microsoft e Apple, solo per citarne alcuni, ha sviluppato una simile mentalità nei confronti del rischio è dovuto a particolari condizioni culturali e ambientali. Avviare una start-up legata alle nuove tecnologie è decisamente meno costoso rispetto a un’azienda tradizionale e pertanto il fallimento è in un certo senso più economico. In secondo luogo nella Silicon Valley non mancano i finanziamenti e le persone pronte a scommettere su idee nuove e potenzialmente redditizie. Ma sia chiaro: se è vero che nella Silicon Valley a nessuno viene negata una seconda possibilità, è altrettanto vero che i finanziatori esigono dimostrazione della consapevolezza delle ragioni di un insuccesso prima di aprire nuovamente i cordoni della borsa.
Meglio prevenire
E da noi, in Emilia, come stanno le cose? È facile constatare la nostra distanza dalla Silicon Valley: basti pensare alla grave situazione di congelamento del credito. Ma è indubbio che le start-up abbiano bisogno di essere accompagnate, proprio come negli anni ’50 fece la Standford Research Park, l’incubatore tecnologico che ha dato impulso a tante imprese della Silicon Valley. In questa direzione anche da noi qualcosa di muove. Re Up, per esempio, è un progetto della provincia di Reggio Emilia rivolto ad aspiranti imprenditori o a neo imprese costituite da non più di dodici mesi. I soggetti selezionati seguono un percorso di formazione che consente loro di sviluppare le competenze specialistiche, le strategie necessarie alla concretizzazione della loro idea e le principali tecniche di gestione delle diverse aree funzionali dell’azienda. Accanto alla formazione d’aula è previsto un percorso di accompagnamento degli startupper nella progettazione del business plan, che viene poi messo in pratica con il supporto di un team di esperti nell’effettivo avviamento dell’attività imprenditoriale o nella realizzazione del progetto di sviluppo, sperimentando sul campo quanto appreso nella precedente fase formativa. Viviveg è una delle sette aziende uscite dalla prima edizione del progetto: insieme ai coniugi che si sono dedicati alla rivisitazione vegana di piatti della tradizione, sono state premiate aziende, per lo più promosse da giovani imprenditori, nei campi del biomedicale, dell’energia, della tecnologia della comunicazione, dell’elettronica, dell’alimentare e della sicurezza. Oggi queste imprese occupano circa quarantacinque persone.Anche a livello regionale è attivo dal 2004 We Tech Off, un progetto per il supporto alle nuove imprese del consorzio Aster, coordinato dall’ingegner Sara Monesi. «Affianchiamo per sei mesi gli aspiranti imprenditori – spiega la responsabile – Li aiutiamo a capire se la loro idea di impresa è sostenibile. Facciamo formazione di base e offriamo consulenze specialistiche di alto livello, affiancando gli startupper nell’elaborazione di un business plan. Oltre a ciò, li accompagniamo a fiere di settore o a incontri con possibili clienti, per inserirli in un network di contatti fondamentale per lo sviluppo di una srat-up. Abbiamo notato che con sei mesi d’accompagnamento si riduce molto il rischio del fallimento, perché le persone riescono a riflettere bene su quello che vogliono fare, sul loro prodotto o servizio e sul modo migliore di proporlo al mercato. Il fallimento non è un dramma, ma è comunque meglio se si può evitare di sprecare tempo o partire con il piede sbagliato, anche perché emotivamente tutto questo ha un peso. In questi anni alcune imprese hanno chiuso, ma in diversi casi, chi le guidava, con l’affiancamento opportuno, è stato capace di avviare un’altra iniziativa imprenditoriale di successo».
Morta un’impresa…
Un ambiente favorevole alla nascita di nuove imprese è dunque l’unico antidoto capace di disinnescare e attutire gli effetti negativi del fallimento, che inevitabilmente sono destinati a verificarsi nel mondo degli affari. Ma la dura realtà nella quale si trovano a vivere la maggior parte delle imprese italiane non permette di guardare al rischio crac con questo ottimismo. «Il fallimento comporta la distruzione dell’impresa. Nel fallimento si svendono i beni, viene trasferita ricchezza, i creditori falcidiati e il know-how disperso. Non è, come diceva l’economista austriaco Joseph Shumpter, teorico della distruzione creativa, il quale sosteneva che quando muore un’impresa ne nasce un’altra. Questo accadeva quando le imprese erano fatte più da uomini che da capitali. Oggi quando muore un’azienda difficilmente ne nasce un’altra». Carlo Baldi, commercialista, revisore contabile, professore ordinario d’Economia, coinvolto in prima persona in numerosi progetti imprenditoriali, conosce bene la situazione reggiana ed emiliana. «Oggi c’è una morìa spaventosa di aziende perché in Italia è crollata la domanda. Le nostre imprese, inoltre, hanno un problema enorme di sottocapitalizzazione: sono cresciute con gli artigiani che si autofinanziavano e questo oggi non è più sufficiente per reggere la concorrenza. Le banche non concedono credito perché hanno i loro problemi e in Borsa ci sono pochi fondi che investono sulle piccole e medie imprese». Se nei distretti a elevata innovazione il fallimento di una start-up viene considerato fisiologico, nel nostro tradizionale tessuto economico non si può dire la stessa cosa. «Il fallimento è considerato una grande macchia – conclude Baldi – Il fallito è uno che ha sbagliato e che ne subisce le conseguenze, anche sanzionatorie. Gli effetti del fallimento poi, sono come bombe: lasciano dei crateri nel territorio».
Nessuno si senta solo
Nel 2012, secondo l’Osservatorio fallimenti procedure e chiusure di imprese di Cerved Group, sono uscite dal mercato circa 55mila imprese (+0,8% sul 2011), con una media di 200 chiusure al giorno. Recentissimi dati diffusi dalla Camera di Commercio di Reggio Emilia segnalano nel 2012 il numero più basso di imprese registrate da otto anni a questa parte: a fine dicembre le aziende iscritte erano 57.217; per trovare un numero inferiore bisogna tornare al 2004, quando se ne contavano 56.626. Non si tratta solo di libri portati in tribunale, ma anche di cessazioni di altra natura che parlano nel complesso di un quadro di evidente difficoltà. La lunga scia di suicidi per motivi economici che si è verificata negli scorsi mesi in Italia è il lato più drammatico del fallimento. Lo scorso maggio la Cna di Modena, in collaborazione con l’Ausl, ha avviato un percorso di sostegno psicologico per imprenditori in difficoltà, dal titolo Nessuno si senta solo, che ha portato all’attivazione di una linea telefonica, un servizio di consulenza psicologica e una sensibilizzazione dei medici di base sui segnali di rischio da rilevare. Perché è chiaro che gli effetti del fallimento hanno un peso diverso a seconda che si parli di nuove imprese o imprese consolidate. «Nelle start-up, specie in un periodo di crisi, è un rischio ampiamente preventivato – dice lo psichiatra Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena – Ma quando il fallimento colpisce persone che hanno legato la loro stessa esistenza all’azienda, scatta un meccanismo identitario che rende difficile contenere gli effetti di un cattivo andamento economico sulla vita privata». È evidente che senza persone capaci di assumersi rischi, a partire di quello di fallire, nessuna nuova impresa vedrebbe la luce. Rischiare però non è sinonimo di avventurismo o di idee strampalate: i sogni, per poter camminare, hanno bisogno di una solida capacità operativa. A questo servono gli incubatori come Reggio Up o Aster. E noi ci chiediamo: quante nuove imprese in più potrebbero nascere se ci fossero persone incoraggiate a rischiare di più e soprattutto un contesto economico capace di premiare la voglia di fare o ri-fare nuove aziende?