
Da Platone ad Adam Smith, passando per Karl Marx, fino a Max Weber. Tra le classificazioni sociali offerte dalla sociologia fin dagli albori, quella che più ha influenzato l’immaginario collettivo e la storia recente, è forse quella offerta da Marx a metà ‘800. Ma da allora molto è cambiato: i lavoratori invece che falce e martello, usano per lo più tastiere e mouse; il titolo di studio non è garanzia di prestigio sociale; la speculazione finanzaria imbizzarrita può bruciare un patrimonio in pochi istanti; la rateizzazione ci ha resi tutti potenziali consumatori di qualsiasi bene disponibile sul mercato; l’immigrazione ha riproposto dinamiche sociali che si pensavano relegate al passato. Che ne è delle classi sociali nella nostra epoca liquida?
Borghesia, proletariato, coscienza di classe: disinnescato vecchiume secondo alcuni, armamentario concettuale più potente che mai secondo altri. Certo è che lo spettro di Karl Marx si aggira ancora per il villaggio globale. «Il criterio di definizione delle classi nel marxismo è quello dei rapporti sociali di produzione. In un sistema capitalistico i lavoratori e i proprietari dei mezzi di produzione sono partner di un contratto di scambio: i lavoratori vendono la loro forza, i capitalisti la comprano e la impiegano per produrre i beni che immettono sul mercato». Così il professor Piergiorgio Solinas, ordinario di Antropologia culturale all’Università di Siena, ci ricorda il pensiero del filosofo di Treviri. Ma hanno ancora senso queste categorie? «Penso – prosegue Solinas – che in gran parte non sia venuta meno né la rispondenza ai fatti né l’utilità di questa teoria per capire più a fondo che cosa siano oggi le classi e come si dispongano sulla scena storica. Ciò che è molto cambiato, e che continua a cambiare, è il peso della produzione rispetto al commercio, alla distribuzione e al mercato, ma anche rispetto alla finanza e alla circolazione dei prodotti culturali».
Lotta continua
Il professor Luciano Gallino, presidente onorario dell’Associazione italiana di Sociologia, è intervenuto di recente a TedXReggio Emilia, illustrando le dinammiche del cambiamento di cui parla Solinas. Tutto risalirebbe ai primi anni ’80: «Negli anni precedenti, i tassi di profitto delle manifatture erano andati diminuendo e quindi, anche sotto lo stimolo di istituzioni culturali neoliberali e di cospicue forme di lobbying, la ricerca di profitto si è spostata dalla manifattura alla finanza. Le banche hanno creato enormi quantità di denaro concedendo prestiti e diffondendo trilioni di titoli derivati. A quel punto anche l’industria ha cominciato a preoccuparsi di massimizzare il profitto per gli azionisti più che dei prodotti». Un meccanismo che, oltre a generare la crisi che stiamo vivendo, secondo Gallino è alla base di quella che si presenta ancora come una lotta di classe: «Con la finanziarizzazione dell’economia i ricchi hanno prestato denaro ai poveri per comprarsi la casa o per garantirsi una pensione e ne hanno ricavato profitto; per il famoso 1%, gli arricchimenti sono stati semplicemente astronomici. I ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, e la politica non ha fatto altro che assecondare questa patologica distorsione con politiche fiscali inique e un certo lassismo nei confronti di evasione ed elusione fiscale».