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Nasce dalla rabbia questa volontà di occupare Wall Street, le piazze, la crisi, e nasce soprattutto dai più giovani, categoria che oggi comprende adolescenti e quarantenni. Generazioni più istruite delle precedenti che hanno visto le proprie aspirazioni naufragare nella precarietà; figli del benessere che non riescono a mantenere lo stile di vita in cui sono stati allevati e che non potranno garantirlo ai propri figli; giovani che si sentono traditi e derubati perchè privati della dignità del lavoro. Occupy è tutto questo ma soprattutto, come ci racconta il giornalista Riccardo Staglianò, autore di un libro reportage sul movimento, «è un gruppo di persone che ha deciso di non arrendersi all’ineluttabilità della storia, e che in maniera del tutto pacifica sta facendo la differenza rimettendo sul tavolo dell’opinione pubblica temi tabù come l’ineguaglianza economica. Viene in mente Sartre: “Un ribelle è un uomo che dice no”. Ecco, il popolo di Ows ha deciso di dire no».

Dignità è la parola chiave per comprendere il fenomeno Occupy, che a ben guardare ha origine nel vecchio continente: i primi a dire “no” furono infatti gli oltre 25mila spagnoli che il 15 maggio 2011 invasero le strade e le piazze di Madrid per protesta contro la politica del governo. Indignados divenne il loro nome, in tributo a Indignatevi!, pamphlet di Stephane Hessel edito nel febbraio dello stesso anno. L’autore, ex partigiano novantatrenne, colse il malessere serpeggiante e, puntando il dito sulle disuguaglianze sociali, sulle condizioni di lavoro umilianti, sulle discriminazioni razziali, invocò l’indignazione quale antidoto all’indifferenza, per un cambiamento non più prorogabile.

Gli spagnoli fecero scuola, ma i contenuti della protesta divennero globali solo quando approdarono a New York. Mentre in Europa, infatti, bersaglio delle contestazioni sono i governi dei singoli paesi e le misure adottate per affrontare il collasso finanziario, Occupy ha assunto una prospettiva globale analizzando la crisi della rappresentanza politica, il suo connubio con l’economia, la politica del debito, e ha iniziato a progettare modelli sociali alternativi. La scelta di accamparsi a Wall Street e lo slogan “We are the 99%” sono insieme una dichiarazione di intenti e di metodi: uniti si può creare un’alternativa fuori dalle logiche che governano la finanza mondiale. Come gli Indignados, anche Occupy si basa su pratiche assembleari organizzate dal basso e orizzontali, al punto che non ci sono leader riconosciuti del movimento. Molteplici le anime, le associazioni e le idee politiche che si muovono al suo interno, e si riconoscono in una pratica decisionale comune. Un’unità multiforme che non è stata incrinata nemmeno dalla police brutality, come ci racconta Staglianò: «Le botte ci sono state, tante e dure, ma i ragazzi non sono cascati nella trappola. Più botte prendevano più le immagini di quelle cariche venivano messe in circolo dalle webtv del movimento, più guadagnavano in simpatia da parte della popolazione».

Ma come si sono trovati il 17 settembre 2011 tutti uniti a dire no di fronte a Wall Street? In principio fu David Graeber. L’antropologo anarchico, sulle pagine di una nota rivista canadese, si chiese come smuovere gli statunitensi dal loro torpore: il dibattito che ne seguì sfocio in un primo tentativo di occupazione di Zuccotti Park, il 14 giugno dello scorso anno. L’esperimento non ebbe grande successo, ma fu occasione per lanciare l’appuntamento di settembre a Wall Street. Passaggio fondamentale per l’identità del movimento fu ciò che accadde il 2 agosto al Bowling green: quella che doveva essere un’assemblea del primo nucleo di attivisti si trasformò in un comizio; Gaeber, non approvando la modalità verticistica dell’incontro, si spostò in un angolo del parco, seguito da parecchi altri interessati alla pratica orizzontale del confronto. Così nacque Ows con la sua modalità organizzativa – tipicamente anarchica – di condivisione, analisi e azione diretta.

Oggi, a un anno dalla sua nascita, viene spontaneo domandarsi cosa abbia ottenuto il movimento e come si stia evolvendo. Giriamo la domanda a Staglianò: «Penso a Molly Ketchpole, la ventiduenne che ha deciso di resistere all’aumento del canone di 60 dollari annui per la carta di credito stabilito da Bank of America e ha dimostrato che si può far indietreggiare anche una banca. Lei ha avuto l’idea, altre 360 mila persone l’hanno sottoscritta, e alla fine hanno vinto. Idem per il Bank Transfer Day: chi credeva che tanti soldi sarebbero stati trasferiti dalle banche commerciali ai crediti cooperativi? Eppure è successo. Ed è uno schema che potrebbe essere applicato a tante altre realtà». Ows è un movimento che affronta le questioni nel momento in cui si pongono: i suoi membri sono impegnati quotidianamente nel sostenere persone sotto sfratto e pignoramento, nell’affiancare le lotte dei lavoratori non sindacalizzati, e nell’elaborare obiettivi e strategie da porsi nel breve periodo per arginare la deriva sociale.

«Ows va avanti da un anno – prosegue Staglianò – e non accenna a spegnersi. Anzi, con la campagna elettorale per le presidenziali che entra nel vivo credo che ne sentiremo parlare sempre di più, e potremo valutarne il peso reale sulle forze politiche in campo». Se i media ne parlano meno, nella realtà Ows prosegue la propria lotta, il confronto nel locale come su scala globale attraverso i social network, costruendo un’alternativa grazie a una pratica quotidiana di impegno. «Ad oggi è riuscito a fare prendere consapevolezza al popolo americano dell’insostenibile divario tra ricchi e poveri – conclude Staglianò – Vi sembra poco? A me no».