di Tatiana Salsi
Mamma Angiolina raccolse tutte le pezze rosse che aveva a disposizione in casa. Le esaminò attentamente e ne scelse alcune per confezionare un golfino. Erano tempi duri, quelli della guerra. Da una parte c’erano i tedeschi e i fascisti, dall’altra i partigiani. La gente comune cercava la vita senza guerra, fatta di lavoro, diritti e soprattutto pace. Bastò una notte per terminare quel golfino che avrebbe protetto sua figlia sulla strada, quella che percorreva ogni giorno come taxista. Da allora la giovane Albertina Cortelloni divenne per l’occhio vigile dei partigiani la taxista dal golfino rosso. Si erano raccomandati con lei: «Albertina, hai rischiato grosso. Avevo già staccato la linguetta e, accorgendomi che eri tu sull’auto scura e non i tedeschi, ho gettato la bomba lontano».
Di coraggio, Albertina ne ha sempre avuto da vendere e anche oggi, a cent’anni appena compiuti, gli occhi brillano di quella determinazione che è diventata orgoglio di aver vissuto guardando avanti, sempre. Albertina lo ricorda bene: nonostante tutto, un fremito quel giorno gli era sceso lungo la schiena. Lei, nata il 15 ottobre 1913, a 26 anni era diventata la prima taxista d’Italia, la prima donna a stringere tra le mani la licenza di terzo grado per guidare le auto destinate al servizio pubblico. Mai si sarebbe aspettata di rimanere l’unica con un mezzo a circolare lungo le strade segnate dalla guerra. «I tedeschi – ricorda – avevano requisito tutte le auto ai privati e io, a Pavullo, ero rimasta l’unica a circolare. Il problema era che la mia auto era scura come quelle utilizzate dai tedeschi e così, mentre stavo raggiungendo per l’ennesima volta l’ospedale di Verica, fui scambiata per uno di loro». Andò bene. Albertina al volante non alzava mai gli occhi dalla strada, specie se al fianco stava seduto un uomo. Un’accortezza fondamentale per essere presa sul serio, per non alimentare maldicenze e il livore delle mogli che vedevano la giovane donna scorrazzare per le strade. Un giorno capitò l’incredibile. Sul taxi salì il capo repubblichino Bruno Rivaroli. Albertina, come sempre silenziosa e prudente, lo portò a casa, in una frazione di Pavullo nel Frignano. Subito dopo sul taxi salì il generale Mario Ricci, detto Armando, comandante partigiano della Repubblica di Montefiorino. «La prima volta che caricai Armando – spiega Albertina – era con altri due uomini. Mi dissero che erano tre boscaioli che dovevano far legna a Montefiorino. Sapevo bene chi era…».
La storia di Albertina è unica: 60 anni di servizio taxi, neppure una multa e neanche un incidente. Ma soprattutto la sua è una storia di grande emancipazione vissuta con naturalezza e autonomia. Nella Pavullo del 1936, dopo aver sposato a soli 18 anni Mario Barbari, di professione taxista, Albertina scelse di seguire la strada del marito. «Fin da piccola mi piacevano i motori, mio padre aveva le macchine da trebbiare – dice sorridente – e così ho pensato che avrei potuto lavorare come mio marito. è stato lui a insegnarmi a guidare e mi sgridava sempre perché diceva che non guidavo bene. Per questa ragione avevo quasi deciso di desistere». Ma la determinazione di Albertina ha vinto. E lo ha fatto contro molti pregiudizi. Tutta curata, ma mai «vistosa» come dice lei, in gonna e camicia si presentò alla commissione esaminatrice. «I camionisti – ricorda Albertina – mi guardavano come bestie feroci: nessuna donna guidava. Così per avere la patente ho sopportato le pene dell’inferno. All’esame cercavano di mettermi in difficoltà in tutti i modi e l’ultima domanda fu un trabocchetto. Ma alla fine fu l’esaminatore a restare senza parole». La patente, però, arrivò solo dopo il pronunciamento del ministero, perché il prefetto di Modena non voleva firmare il documento, non credendo che una donna avesse le capacità necessarie per guidare un’auto, specie pubblica. Era il 1936, l’anno delle inique sanzioni e dell’autarchia, della guerra in Etiopia, della nascita dell’impero. Per Albertina è soprattutto l’anno del rombo del motore della Fiat 500 A Topolino, disegnata da Dante Giacosa e venduta a 8.900 lire, mentre la casa torinese motorizzava l’Italia con la Balilla. A Pavullo i taxisti erano diventati tre, ma per chi aveva fretta c’era una sicurezza: Albertina. «A me piaceva correre – spiega con voce ferma – mentre mio marito andava piano. Così, chi non aveva tempo a disposizione chiamava me». «I miei colleghi mi guardavano come se fossi il diavolo. La gente pensava male a quei tempi – continua Albertina – e le donne erano tenute come schiave. C’era poi chi, come me, aveva la fortuna di aver sposato una persona di buon senso. Non c’erano però molte chiacchiere che mi riguardassero. Io, come donna, avevo un doppio lavoro: quello di taxista e l’impegno di non guardare mai negli occhi gli uomini, di avere molto contegno perché le mogli non diventassero gelose. Dovevo dare sicurezza e ci riuscivo».
Come la goccia che rompe il sasso, anche la costanza scalfisce il pregiudizio e così la taxista dal golfino rosso – madre e moglie – era diventata la signora spericolata che riusciva a sorpassare le lunghe file d’auto che si incontravano lungo le strade di montagna, la signora che era salutata a suon di clacson al suo passaggio, la stessa che alla guida del suo taxi, all’età di 85 anni, ha portato l’ultimo cliente fino a Grottaglie, in provincia di Taranto. Tantissimi chilometri alla guida di auto, addirittura ambulanze perché l’attività di famiglia comprendeva anche questo servizio, con la sola nota dolente di dover percorrere l’autostrada: «Avevo il terrore di affrontarla – dice Albertina – perché troppo dritta e noiosa. Abituata come ero alle curve della montagna, mi si chiudevano gli occhi». E come darle torto? Nella vita le curve non mancano: «Ci vuole tanta pazienza – dice guardando la nipote Rita – bisogna tenere duro. Bisogna essere capaci di superare le angherie».