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Giornate di lavoro sempre uguali, passate alla scrivania, sbrigando l’ordinario in attesa di dare o ricevere nuove direttive. E così che, anno dopo anno, l’azienda diventa un luogo in cui i dipendenti non guardano al di là delle proprie circoscritte competenze, e i manager non hanno occasione di essere altro che decisionisti accentratori: una rigida struttura piramidale, burocratizzata e votata alla produttività. Un ritratto impietoso, e arrotondato in qualche tratto per eccesso – ma chi, almeno una volta, sul lavoro non ha provato la sensazione di essere in gabbia… – che ci sollecita a porci la domanda da un milione di dollari: deve per forza andare a finire così?

Da qualche anno, da più parti c’è chi solleva dubbi sull’efficacia di questo modello di management in un mercato liquido a immagine e somiglianza della società umana che lo frequenta. Dubbi che una comunità sempre più vasta di accademici e consulenti ha ben presto iniziato a tradurre in principi e prassi di un nuovo modo di gestire business e risorse umane. Si chiama management 2.0 e presuppone, prima di tutto, che ogni lavoratore sia messo nelle condizioni di prendere parte ai processi decisionali, partecipando consapevolmente di oneri e onori. Condividere e collaborare a tutti i livelli sono le parole d’ordine di questo nuovo corso, che ha come obiettivo la creazione di consenso diffuso attorno a obiettivi e processi aziendali. Il modello – guarda caso – è il web 2.0 con la sua comunicazione tra pari, senza gerarchie, dove ciascuno partecipa a migliorare le idee dell’altro, ed è la comunità stessa da un lato a far emergere naturalmente i leader, dando più ascolto a chi nel tempo dimostra di fornire le risposte più utili e competenti, e dall’altro isolando i cosiddetti troll o chi non è in grado di contribuire a trovare soluzioni. Si tratta di una rivoluzione rispetto al divide et impera, e chiede di abbracciare una filosofia che ricorda alcuni precetti dell’economia del bene comune e parte dei principi con i quali sono nate le organizzazioni cooperative, pur con alcune differenze, sostanziali: l’utile rimane il principale obiettivo dell’impresa, e l’attivo di bilancio resta il principale indicatore di successo.
Utopia? Eresia? Se applicato a dovere – assicurano i teorici – il management 2.0 è un congegno che garantisce la produzione strutturata di valore aggiunto, ovvero di quel quid che la globalizzazione dei mercati ha reso irrinunciabile per le imprese alle nostre latitudini.
Primo: cambia mentalità
Qualsiasi cambiamento aziendale richiede solide radici nel pensiero: “employee first, customer second” è il mantra culturale con il quale inaugurare il nuovo corso
Ora però si tratta di capire da dove cominciare. «Bisogna pensare secondo la formula employee first, customer second: un dipendente soddisfatto lavorerà di più e meglio».
Secondo Luigi Spiga, presidente della sezione italiana della Society for Organizational Learning, un istituto nato nel 1991 come centro di ricerca del Mit, la prima mossa è un cambiamento di mentalità «L’azienda deve essere vista non come una macchina, ma come un organismo vivente – spiega – Perchè il cambiamento sia reale e fecondo richiede forti radici culturali e filosofiche. Molti pensano che il management 2.0 si riduca alla creazione di un social network interno, ma il mutamento dev’essere ben più profondo. è lo stesso concetto di leadership che va rifondato».
Secondo: investi in tecnologia
Wiki, blog, bacheche virtuali, documenti condivisi – possibilmente cloud… questi gli strumenti necessari per far si che il cambiamento prenda forma
Dello stesso avviso è Alessandro Prunesti, autore del volume Enterprise 2.0 e docente all’Università Europea di Roma: «Il primo passo da compiere implica un ripensamento della cultura aziendale verso una maggiore apertura dei processi interni e delle relazioni tra le persone che vi lavorano. Contemporaneamente, occorre anche effettuare una valutazione sulle piattaforme tecnologiche da adottare». Alcuni strumenti, per Prunesti, sono essenziali. «Va implementata una wiki, ossia uno spazio dove il personale possa condividere soluzioni e conoscenze su criticità tecniche e organizzative dell’azienda – spiega – Servono poi una bacheca personale, dove si possano mostrare i progressi della propria attività, informare i colleghi e creare gruppi di lavoro e uno spazio per la condivisione dei documenti, per editarli senza fastidiosi rimbalzi di email tra una business unit e l’altra. Infine, un aspetto non trascurabile al giorno d’oggi: questi strumenti di lavoro devono poter essere fruiti anche in mobilità».
Terzo: dai spazio ai dipendenti
Finora abbiamo parlato di impegni che riguardano il lato dirigenza. ma per essere autenticamente 2.0 questo nuovo corso richiede un coinvolgimento non solo formale dei dipendenti a tutti i livelli
Finora si è parlato solamente di ciò che l’imprenditore deve modificare. Ma, nel passaggio al management 2.0, l’impegno del dipendente è altrettanto imprescindibile. Davanti alla prospettiva di poter fare sentire la propria voce, la reazione potrebbe essere positiva in maniera quasi unanime. I problemi però, potrebbero giungere in un secondo momento: maggiore libertà di azione implica più responsabilità, e la tentazione di riprodurre i meccanisimi abituali di comoda subordinazione rischiano di riaffiorare. Ma le aziende che già applicano il management 2.0 hanno imparato a prevenire questo rischio. Si prenda ad esempio la multinazionale Gore, che applica questi principi fin dalla sua nascita, nel 1958: Bill Gore creò la sua azienda organizzandola con una struttura piatta basata sul lavoro in team, senza diagrammi organizzativi né catene di comando. Ancora oggi Gore assume associati, non dipendenti, e, al suo interno, gruppi auto-organizzati lavorano su progetti che richiedono le specifiche capacità di ognuno. Tutti possono rapidamente diventare leader, se riescono a dimostrarsi credibili e a convincere gli altri della bontà delle loro idee. Tutto é organizzato in maniera informale, e ogni associato è in parte proprietario della compagnia attraverso un piano azionario. Ma questa specie di democrazia dell’innovazione funziona? Stando ai numeri, che parlano di entrate per 3 miliardi di dollari e di 9000 associati in 30 Paesi del mondo, parrebbe proprio di sì. E anche l’ambiente di lavoro è eccellente: in Italia, la Gore è al quinto posto nella classifica 2012 redatta dal Great Place to Work.
Non sarà l’anarchia
L’idea che per far funzonare un’organizzazione ci deve essere da un lato chi comanda e dall’altro chi esegue senza discutere è talmente radicata che l’idea di abbandonarla potrebbe provocare almeno una piccola vertigine. cosa dicono gli esperti?
Fabio Lalli, fondatore di Indigeni Digitali e Ceo di Iquii, società specializzata nello sviluppo di applicazioni mobile e social, nella sua esperienza ha notato che chi entra in un’azienda dove si applica già il management 2.0 ha «molti meno problemi di integrazione e acquisizione di informazioni rispetto ad altre imprese diversamente organizzate». Per loro, spiega, l’adattamento sarà «molto più semplice, perché l’approccio 2.0 facilita il passaggio delle informazioni e rende le persone più responsabili, maggiormente coinvolte dal punto di vista emotivo e professionale e con un forte senso di appartenenza. In breve tempo, saranno le altre aziende a essere viste come poco innovative e con un ambiente di lavoro meno gratificante».
«L’Italia è molto indietro – ammette Spiga – Non c’è quasi letteratura sulle nuove forme di management, e quella poca che esiste in realtà parla di tecniche di marketing. Alcune multinazionali hanno iniziato ad avvicinarsi al 2.0, ma gli esempi di piccole e medie imprese che lo applicano si contano sulle dita di una mano».
Prunesti, però, è di tutt’altro avviso: «Il passaggio da un sistema all’altro richiede parecchi mesi e anche una certa mole di investimenti – spiega – Nonostante questo, anche aziende più piccole, come alcune Pmi della filiera industriale e agroalimentare del centro-nord Italia, stanno adottando strumenti per snellire i processi di management tra reti d’impresa».
E, di solito, fatto il salto, difficilmente si torna indietro: «Già il fatto di valutarne l’applicazione determina un importante cambio di paradigma manageriale – conclude Prunesti – Quella del 2.0 é un’innovazione ormai fondamentale, non più rimandabile. Nemmeno nel nostro Paese».