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«Noi siamo qui perché non riusciamo a esprimere con le parole il nostro star male e abbiamo usato la violenza». È uno dei ricoverati dell’Opg di Reggio Emilia a parlare, ed è Monica Franzoni a raccontarcelo: da più di dieci anni si occupa di percorsi rieducativi e terapeutici – prima solo psico-motori e dal 2004 anche teatrali – che Uisp e Dipartimento di Salute Mentale (Dsm) di Reggio Emilia sostengono all’interno dell’Opg. La sua è una testimonianza diretta e quotidiana delle condizioni di vita nella struttura, che aggiungono qualcosa alle immagini scioccanti e tragiche emerse dall’inchiesta della Commissione Marino – inchiesta che ha condotto il Senato, il 25 gennaio scorso, ad approvare un disegno di legge che sancisce la chiusura degli Opg entro il 31 marzo 2013.
«A Reggio Emilia – racconta Monica – sono ricoverati solo uomini. In questo momento, ne sono 170, ma sono stati anche 300; nell’ultimo anno ne sono stati dimessi 130. Le stanze sono molto piccole e in un reparto rimangono aperte poche ore al giorno. Ci sono ospiti molto gravi con i quali vengono adottate forme di contenimento farmacologico; ospiti che minacciano di fare male a se stessi o agli altri. Ci sono condizioni di lavoro estreme per il personale medico e di polizia. Ma l’Opg è anche un luogo dove si può osare: quando ho avanzato proposte ho sempre incontrato la massima disponibilità nel mio percorso per mettere al centro i bisogni delle persone».
Chi sono queste persone? «Ai miei laboratori partecipa mediamente una quindicina di ricoverati. In questi anni ho avuto a che fare con storie di vita diversissime tra loro: dai 20 ai 70 anni, di ogni parte d’Italia e del mondo, di ogni classe sociale e professione, e con profili psichiatrici dalla tossicodipendenza alla schizofrenia, passando per la personalità borderline». Questo per Monica Franzoni. Ma per l’articolo 222 del codice penale i ricoverati sono tutti cittadini prosciolti per infermità psichica da un’accusa di reato ma che, in quanto socialmente pericolosi, devono essere sottoposti ad una misura di sicurezza riesaminabile entro due, cinque o dieci anni. Concretamente questo si traduce nell’internamento in un Opg per un tempo potenzialmente prorogabile all’infinito – o al finito della morte. Una terra di mezzo nominale tra il carcere e l’ospedale psichiatrico, che nei fatti ha tutte le caratteristiche di quei manicomi civili che furono chiusi nel 1978 grazie alla Legge Basaglia.
Riapriranno il 31 marzo 2013? La risposta è tutto fuorché scontata, come ci spiega Stefano Cecconi, membro del Comitato StopOPG: «A pochi mesi dal termine previsto, il rischio è che tutto si riduca al trasferimento degli internati in altre strutture manicomiali, all’apertura di una costellazione di micro Opg in ogni regione italiana e alla loro privatizzazione». Senza contare che la riforma potrebbe anche rivelarsi un fuoco fatuo, perché c’è la questione generale della riduzione del debito e dei tagli alla spesa pubblica. «Il rischio di un rinvio della chiusura – ci racconta Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che lotta per i diritti nel sistema penale – è incombente. Ma in ogni caso bisogna mettere in campo tutte le energie disponibili per studiare e mettere in piedi alternative dignitose». Perché una cosa è certa: per chi si è battuto per la chiusura degli Opg, contro certi metodi («fasce di contenzione, somministrazione incontrollata di farmaci, costrizione all’ozio e alla vita vuota», dice Gonnella) e contro le strutture stesse («luoghi chiusi ed escludenti, dove le persone totalizzate nella malattia perdono diritti e responsabilità», dichiara Cecconi), indietro non si torna.
Che fare quindi? «StopOPG – ci dice Cecconi – ha rivendicato l’immediato riparto alle Regioni e ai Dsm delle risorse stanziate dalla legge per offrire un’assistenza alternativa ai ricoverati: 38 milioni di euro nel 2012 e 55 milioni dal 2013». Con quei soldi, secondo Gonnella, «va messo in piedi un progetto di recupero socio-sanitario capace di valorizzare le caratteristiche di ciascun essere umano. Andrebbe condivisa una progettualità con tutti gli attori della comunità e l’internato stesso andrebbe ascoltato. Una comunità chiusa funziona se fondata sulle stesse regole di una comunità sociale libera di adulti». La questione dell’individuazione di forme concrete per realizzare questi principi, che sono quelli delle comunità basagliane, è naturalmente complicata dalla varietà di casi. «è possibile che alcuni di loro possano tornare a casa – spiega Cecconi – rimanendo in cura presso i servizi del Dsm e continuando ad essere supportati per il raggiungimento di autonomia e integrazione sociale. Altri non potranno tornare a casa, anche solo perché non hanno una casa, e avranno bisogno di essere inseriti in comunità con programmi ad hoc».
Una questione aperta che ci riguarda tutti, se ha ragione Monica Franzoni: «Mi auguro che quello che di buono è stato fatto non venga perso. Gli Opg troppo a lungo sono stati considerati come delle discariche umane, come il tappeto sotto il quale nascondere la polvere: luoghi in cui rinchiudere ciò che è troppo difficile affrontare. E invece dovremmo guardarli per quello che sono davvero: uno specchio di tutto ciò che non funziona nella nostra società».

One Comment

  • Carato Lucia ha detto:

    Come familiare di un ospite dell’OPG, sono d’accordo con quanto scritto nell’articolo. Ha ragione Ceccone quando parla di “vita vuota”! Il direttore di Castiglione delle Stiviere racconta di .palestre,attività varie,di accompagnamento psicologico….Il Direttore esprime,quando elenca queste cose,quello che vorrebbe….ma purtroppo non c’è.Io ne sono testimone,perchè ho visto e frequentato quell’opg!Lui non vuole chiuderlo perchè sarebbe un negare quello che dice.Lucia