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Quale dovrebbe essere la funzione dell’immagine all’interno della società?
Le immagini che una società produce sono lo specchio del nostro modo di guardare, parte integrante del nostro modo di essere, di immaginare, di materializzare l’invisibile e di pensare al futuro e al passato con la stessa intensità. Le immagini fotografiche e digitali hanno oramai cambiato statuto: non più copie della realtà, ma oggetti consistenti, fatti materiali. Le immagini possono produrre altre immagini ma anche interpretazioni, immaginazioni, decisioni politiche.

Immagini coscienziose e stimolanti porterebbero a un miglioramento reale nelle condizioni di vita degli individui?
Non c’è certezza che la mente umana possa essere favorita da un’induzione diretta di immagini edificanti. E’ vero che le immagini degradanti frustrano la nostra coscienza, ma questa non può certo dirsi pura.

Lavorate insieme da undici anni. In quali occasioni avete raggiunto la maggiore fusione o compenetrazione artistica?
Nei lunghi viaggi verso Berlino, Bruxelles, o di ritorno verso Bologna (tutte città con la B!). Per un lungo periodo il nostro think tank è stato un furgoncino con tre posti davanti e il vano carico dietro. Adesso stiamo imparando a lavorare anche a distanza (Anna Rispoli abita in Belgio, ndr), ma i momenti di maggiore intesa sono sempre improvvisi o coincidono con la fase operativa della produzione.

Siete in contatto con altri collettivi di artisti?
Ci piace da sempre coinvolgere nel nostro lavoro altre persone: artisti, tecnici, musicisti, teorici. Da questo punto di vista siamo molto inclusivi, così come ci piace essere coinvolti in progetti di altri.

Nelle vostre opere spesso la figura umana in primo piano è un mezzo per dirigere l’attenzione sul paesaggio. In quale rapporto sono questi due elementi?
Il paesaggio non esiste in sé, quello che esiste è il territorio. Andiamo spesso in cerca di ambienti particolari, facendo lunghi sopralluoghi. Durante questi appostamenti abbiamo capito che non siamo dei ritrattisti, ma dei paesaggisti. Le figure per noi hanno il potere di incorniciare una sezione di territorio e renderlo denso, emozionante. Al tempo stesso, però, abbiamo bisogno di testimoni, poiché la loro presenza ci permette di guardare ciò che vi è oltre: la linea che separa la città dall’oceano, il ponte che li unisce, le vestigia di un luna park, Dreamland al tramonto, i condomini che sono il ritratto di un intero mondo, la bandiera rossa conficcata sulla terra, il Novecento, il cielo, la luce (gli esempi si riferiscono a Tomorrow is the question, la serie di dodici foto scattata a Coney Island, Brooklyn, ndr).

La vostra mostra personale al MAMbo è stata intitolata Campo | largo. Si riferisce allo spazio o al cinema?
Entrambi: il campo largo è la nostra inquadratura preferita, ma anche un vasto spazio con una visibilità così ampia da permettere di vedere la curvatura della terra all’orizzonte. Ci piacerebbe avere un grandangolo che ci ricordi sempre che siamo figure che si muovono su un pianeta, fatalmente attraversate e ancorate dalla gravità.

L’effetto slow motion in una metafora?
Battito cardiaco decelerato, ritmo vitale distribuito in un arco molto più lungo di previsione, allargamento del senso tattile del presente, tempo che scorre sotto i piedi e dentro di noi. Il movimento rallentato del corpo agisce sul mondo, aumenta il peso specifico delle molecole che compongono la persona fisica, la curvatura del tempo si distende e la terra gira alla tua stessa velocità.

Cosa vi colpisce dei passanti casuali, spesso veri protagonisti inconsapevoli dei vostri lavori?
Ci sono cose che vedi accadere e ti accorgi di non aver mai ritrovato in nessun film, in nessun libro. Stamattina (visione inquadrata dalla vetrata di un bar): un vecchio cammina sotto i portici, a un tratto si ferma, torna indietro di un passo e, come se arrotolasse il tempo, infila il bastone in un buco del pavè. Tasta, valuta, e il suo sguardo e la sua postura emettono il giudizio: sul camminare a piedi, sulla città, sull’amministrazione, sui tempi che corrono, ma anche sulla vita, presente e passata, su tutti noi, sull’imponderabile là fuori. Il cinema, in definitiva, non è altro che un modo di guardare la realtà.

Solitamente collaborate con musicisti della scena sperimentale italiana. Qualche consiglio per l’ascolto?
Stefano Pilia, Luciano Maggiore, Dominique Vaccaro, Enrico Malatesta, Manuel Giannini, Giuseppe Ielasi, Renato Rinaldi, Andrea Belfi, Valerio Tricoli, Claudio Rocchetti, Francesco Cavaliere, Margaret Kammerer. Tutti musicisti stimati che vi consigliamo.

Come spiegate l’enorme successo del genere noir, da voi omaggiato in Never Keep Souvenirs of a Murder (2000)?

Un modo di guardare e interpretare il mondo, estetizzare le sue trame nere per esorcizzarle.

Come funziona tecnicamente il mercato legato alla video arte?
I collezionisti di video sono pochi: spesso si tratta di grandi amanti dell’arte, che hanno raccolte esaustive su intere epoche e aspirano a diventare prestatori dei musei o a costituire una fondazione. Il diritto d’autore (la proprietà morale) rimane sempre dell’artista, il quale può mostrare il proprio film in contesti culturali e artistici, ma dichiarandone un numero finito di copie originali (che controsenso!). Il collezionista che lo acquista si assicura che l’opera non avrà una diffusione pubblica di massa e che non verrà ulteriormente sfruttata economicamente.

Il programma di Rai 3 Blob di Enrico Ghezzi può essere considerato una delle migliori invenzioni artistiche del ‘900?
E’ una delle migliori espressioni della tv sulla televisione stessa. Ghezzi applica alla lettera i dettami della Società dello Spettacolo di Guy Debord. E’ inattaccabile perché è fatto di televisione, e non è censurabile perché la televisione non può negare sè stessa.

Verità e realtà coincidono?
No. Ma possono sovrapporsi, casualmente. Ci appostiamo nella realtà e aspettiamo che si sovrapponga alla verità.