Lobbying e lobbismo: termini piuttosto ricorrenti nel linguaggio mediatico, espressioni che ricompaiono ciclicamente nel dibattito culturale del nostro paese ed alle quali si fa spesso riferimento, non sempre con una precisa cognizione di causa. Non vi è dubbio sul fatto che in Italia a questi termini sia spesso associata una connotazione negativa: l’idea di qualcosa di poco chiaro, di oscuro, di faccendieri e cricche che attraverso manovre ambigue, ai limiti della legalità, tentano di influenzare il decisore pubblico, orientando scelte e decisioni che favoriscano i propri interessi particolari (a discapito di quelli di altri, è sottointeso). L’esistenza di gruppi che rappresentano istanze specifiche e agiscono in difesa di esse presso il legislatore è invece perfettamente accettata, socialmente e culturalmente (oltre che prevista e regolamentata da un preciso quadro normativo), in altri paesi: primo tra tutti gli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, Spagna e Canada, tanto per citarne alcuni.
Il professor Pier Luigi Petrillo, trentacinque anni, è docente di Teorie e Tecniche del Lobbying presso l’Università Luiss di Roma, e di Diritto pubblico comparato alla Unitelma Sapienza. La diversa percezione che si ha del lobbismo in Italia rispetto ad altri paesi è qualcosa con cui è abituato ad avere a che fare: «All’inizio del corso chiedo sempre agli studenti di associare alla parola lobbying un aggettivo, il primo che viene loro in mente: si tratta sempre di correlazioni negative. Ponendo la stessa domanda ad una classe della Columbia University di New York, le risposte sono invece del tutto positive». Secondo il professor Petrillo, le motivazioni di questa ostilità tutta italiana nei confronti dei gruppi di pressione sono di tre ordini: storiche, politiche e socio-culturali». Il ruolo delle lobbies diventa quindi proprio quello di dare voce a tali interessi particolari, in maniera tale da portarli all’attenzione del decisore. Un’altra motivazione è invece intrinseca alla storia politica del nostro paese. «Fino agli inizi degli anni ’90, il sistema politico italiano è stato dominato dai grandi partiti, che erano gli unici organi legittimati a rappresentare interessi di parte e a svolgere quindi il ruolo di mediatori tra la società e le istituzioni: i cosiddetti partiti cerniera – specifica il professore – Quello dei partiti era quindi un ruolo egemonico, nessun altro organo poteva prendere parte al processo di mediazione tra società ed istituzioni. Dopo la fine dei grandi partiti, iniziano invece ad emergere in Italia nuovi soggetti, che in un contesto caratterizzato dall’assenza di norme operano inevitabilmente nell’oscurità». «E’ chiaro quindi – così Petrillo ci introduce alle motivazioni socio-culturali – che le modalità operative di tali gruppi non possono che favorire il crearsi di una percezione negativa presso l’opinione pubblica. I giornali ed il sistema mediatico hanno poi contribuito in maniera significativa al radicarsi di essa».
E’ possibile uscire da questo approccio, indubbiamente limitato ma radicato in precise ragioni storiche e politiche? Come riabilitare l’immagine del lobbying nel nostro Paese? Conclude Petrillo: «E’ necessario comprendere che le lobbies non sono soltanto i grandi gruppi farmaceutici o petroliferi. Amnesty International può considerarsi una lobby, così come il Wwf, o Greenpeace. Un gruppo di cittadini che si oppone alla costruzione di una nuova strada è una lobby».
E’ necessaria quindi innanzitutto una sensibilizzazione dell’opinione pubblica. A questo proposito, è attiva in Italia l’associazione Il Chiostro – per la trasparenza delle lobbies che, come si legge sul sito web, si propone di “promuovere la cultura, la pratica, la regolamentazione della trasparenza nella rappresentanza degli interessi”. Il professor Giuseppe Mazzei, anch’egli un passato da docente alla Luiss e ora titolare del corso di Linguaggio Giornalistico e Relazioni Istituzionali presso la Sapienza Università di Roma, è il presidente dell’associazione: secondo il suo parere, proprio la regolamentazione rimane uno dei principali problemi in Italia. Tuttavia, prerequisito fondamentale alla legislazione è sapere esattamente di cosa si sta parlando: «Il lobbismo è una cosa diversa dalle relazioni pubbliche, è una cosa diversa dalla comunicazione, è necessario dargli una precisa identità». Prosegue infatti Mazzei: «Si può regolamentare un’attività di cui si ha consapevolezza: in Italia manca assolutamente tale consapevolezza, si ha una percezione completamente distorta. I lobbisti sono sottoposti come tutti i cittadini alle normali regole dei codici civile e penale, ma questa è un’attività molto delicata, perché mette a contatto gli interessi legittimi che sono diffusi nella società con il decisore politico, e in questa assenza di norme ognuno fa il lobbista come meglio crede, approfitta dei varchi che ci sono, e si creano situazioni che con il lobbismo non hanno nulla a che fare: malaffare, scambi di favori». Una regolamentazione del lobbismo è quindi la premessa per garantirne la trasparenza e, di conseguenza, favorire una maggiore comprensione e una minore diffidenza da parte dell’opinione pubblica. Secondo Mazzei, sono necessarie alcune norme: «Innanzitutto è fondamentale sapere chi è chi. Il lobbista deve dichiarare la propria identità, per chi lavora, chi rappresenta. Ad esempio, non andrebbe bene che un ex parlamentare si mettesse a fare il lobbista. Un’altra questione importante riguarda invece la presentazione di un rapporto annuale sul lavoro che è stato svolto dal lobbista: con chi ha parlato, quante risorse economiche ha impiegato. Tutto ciò attiene alla trasparenza dell’attività di lobbying, ma senz’altro non basta».
L’aspetto morale della professione del lobbista è infatti altrettanto importante, secondo Mazzei: «Dovrebbe essere previsto un codice etico con tutta una serie di principi, come ad esempio non utilizzare informazioni per il proprio vantaggio personale. Bisognerebbe adottare almeno il codice in vigore a Bruxelles per il Parlamento Europeo». L’Unione Europea si è infatti già dotata di un albo professionale nel quale i lobbisti sono tenuti ad iscriversi, e di un codice di condotta al quale chi svolge tale professione dovrebbe attenersi. Al di là dell’opera di sensibilizzazione, l’associazione presieduta da Mazzei si è mossa concretamente in tale direzione: Il Chiostro ha infatti preparato, in collaborazione con l’Isle (Istituto per gli Studi Legislativi), una proposta di legge che è stata presentata alla Camera, il cui scopo è proprio quello di fornire una base di discussione per la regolamentazione dell’attività di lobbying in Italia. Inoltre, lo scorso maggio, in un’iniziativa che non ha precedenti, si sono riunite a Roma tutte le associazioni di lobbisti dei vari paesi europei, ed è stata creata una nuova associazione (Pace, Public Affairs Community of Europe) allo scopo di coordinarne l’operato.
Regole dunque, prima di tutto: è un punto sul quale entrambi i professori sono in perfetta sintonia, specialmente nelle necessità che la regolamentazione sia rivolta ad entrambe le parti in causa: le lobbies, ma anche le istituzioni. «E chiaro che dobbiamo essere corretti noi, ma per esserlo dobbiamo aspettarci che lo siano anche gli interlocutori istituzionali», ricorda Mazzei. «E’ importante ricordare che alcune normative esistono, ma vengono sistematicamente ignorate. Bisogna cominciare facendo rispettare quelle», sostiene Petrillo, insistendo anch’egli sulla necessità di norme verso l’esterno, dedicate ai lobbisti appunto, e verso l’interno, rivolte cioè alle istituzioni. Come si è visto, il dibattito intorno alla questione è estremamente variegato ed investe punti di vitale importanza per la vita di un paese: il rapporto tra società ed istituzioni, e quindi il funzionamento stesso della democrazia. Il nocciolo della questione è la definizione di quello che è l’interesse generale, della collettività: come si forma, quali parti sono autorizzate a prendere parte alla negoziazione tra società ed istituzioni, con che modalità. «Le lobby vanno ascoltate – tiene a sottolineare Petrillo – Il decisore politico non può altrimenti avere la reale percezione degli interessi. Se devo fare una legge sulla sicurezza sul lavoro, ad esempio, non posso farla senza ascoltare i lavoratori. In Italia invece, un altro problema è che solo le lobbies economicamente rilevanti hanno un certo peso».
Indubbiamente, una maggiore chiarezza intorno alla figura del lobbista e un suo preciso inquadramento professionale sono i primi passi verso quella trasparenza che è indispensabile affinché anche nel nostro paese si sviluppi la consapevolezza e la giusta percezione di quello che rappresenta senza dubbio un fondamentale ingranaggio per il corretto funzionamento del sistema democratico. Specialmente in questi tempi in cui il rapporto tra politica e la società si fa sempre più problematico e distaccato.