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Una delle vicende che hanno maggiormente focalizzato l’attenzione della stampa della politica e dell’opinione pubblica nelle settimane passate, prima che esplodesse lo scandalo relativo ai passatempi del nostro Presidente del Consiglio, riguarda il nuovo contratto FIAT, propugnato dall’amministratore delegato Sergio Marchionne, il braccio di ferro coi sindacati che ha preceduto la sua (seppur risicata) approvazione in sede referendaria e la rottura consumatasi all’interno dei sindacati stessi tra le aperture di CISL e UIL e la linea intransigente della FIOM. Il prevedibile (e giustificato) clamore sollevato dalla progressiva evoluzione degli eventi, dall’inasprimento della conflittualità e dall’esito della consultazione da molti percepito con amarezza, ha fatto sì che le occasioni di confronto nella maggior parte dei casi si siano ridotte ad accesi contrasti tra posizioni intransigenti e contrapposte. Quanto avvenuto è criticabile: l’informazione e le istituzioni, ponendo l’accento solo sugli aspetti di esasperato antagonismo di un tema così importante e complesso per le relazioni industriali del nostro Paese, non hanno certo contribuito ad instaurare un dibattito sensato in materia, tale da indurre la società civile a farsi una propria opinione ragionata e consapevole. Ciò è tanto più grave in un Paese come il nostro in cui i grandi problemi attuali della politica e dell’economia sono tendenzialmente giudicati dall’uomo della strada con superficialità e disinteresse e dall’altro in cui in un passato non troppo lontano gli scontri consumati in sede sindacale e industriale prendevano spesso derive estremiste e pericolose. L’inasprimento della competizione e la necessità di adattare costantemente il proprio modello di organizzazione industriale, imposta dalla crisi che colpisce con particolare veemenza sul settore dell’automobile, potrebbe certamente rappresentare un argomento a favore dei cambiamenti proposti da Marchionne, il quale sostiene la necessità di abbandonare un modello contrattuale che è ancora un retaggio delle vecchie grandi imprese italiane (“grandi” nella dimensione più che nei meriti) e dei loro perniciosi scambi di favori coi poteri pubblici. D’altro canto va però anche rimarcato che questo periodo di crisi corrisponde soprattutto ad un periodo di grandi sacrifici, specialmente per le classi medio basse cui appartengono i lavoratori dipendenti, mentre a tali sacrifici – sia ammesso senza alcuna connotazione demagogica ma con semplice realismo – sembra siano immuni i top manager delle grandi imprese, i cui compensi in denaro e in stock options non conoscono alcuna contrazione. Senza volere scadere in alcun moralismo, posto che ciascuna impresa privata è liberissima di decidere quanto pagare i propri manager, sarebbe però ingenuo non riconoscere come questo crescente divario tra dirigenza e dipendenza aziendale alimenti una tensione sociale sempre più marcata e rappresenti un ostacolo evidente all’instaurazione di un rapporto di reciproca fiducia e cooperazione. Pur rifiutando l’idea di ingerenze legislative o politiche con intenti “moralizzatori”, va constatato che un po’ di moderazione nei piani di remunerazione e il recupero di un basso profilo d’ispirazione calvinista ai piani alti dalle grandi gerarchie industriali italiane non guasterebbe certamente.In secondo luogo non va dimenticato che l’impresa di cui si parla è la FIAT, un’azienda molto controversa che si è inimicata perfino certi ambienti confindustriali per essersi posta talvolta in contrasto con quella piccola media impresa, dalla struttura snella e dalla forte propensione all’esportazione, che costituisce il modello preponderante nelle regioni padane nonché la vera ossatura del sistema produttivo italiano. Inoltre la FIAT nel corso dei decenni ha ricevuto ingentissimi aiuti dallo Stato italiano, attinti a piene mani dalle tasche dei contribuenti, che hanno tenuto in vita l’azienda anche quando l’incapacità di certi suoi manager la stava conducendo dritta verso il fallimento. Ne consegue che ogni italiano, in virtù di questa storica e sistematica contiguità tra stato e impresa, tenda a considerare la FIAT come un’appendice dell’economia pubblica italiana, ad identificarla come un apparato produttivo dello Stato e che, come contribuente, si senta per un certo verso in credito verso di essa. Questo comune sentire ha certamente reso ancora più sgradite le minacciose promesse di Marchionne di abbandonare l’Italia qualora la sua linea non risultasse vincente in sede referendaria. D’altra parte si potrà obiettare, giustamente, che lo Stato italiano stesso ha presentato a suo modo un conto salato alla FIAT per questi favori, imponendole negli anni l’apertura di stabilimenti che secondo le normali leggi dell’economia si qualificavano già a priori come rami d’azienda in perdita, aventi lo scopo precipuo di fungere da ammortizzatore sociale per alcune delle aree più povere e disagiate del Paese. Alla luce di queste considerazioni non solo è molto difficile dire quale delle due parti abbia ragione e quale torto, ma è forse anche sbagliato prendere una posizione massimalista in merito. Sono infatti rinvenibili a sostegno delle posizioni di ciascuna delle parti validi argomenti, che andrebbero valutati con estrema attenzione in relazione ai costi e benefici in termini economici e sociali e non liquidati nel nome di una conflittualità permanente appartenente ad epoche che siamo felici di esserci lasciati alle spalle. Da un lato è inevitabile che qualcosa cambi nel modello industriale FIAT, che conserva a tutt’oggi alcune sacche di privilegi e inefficienze che paiono assolutamente ingiustificate. I lavoratori dovrebbero prendere atto di ciò, abbandonando ogni forma di omertà e protezione verso quella minoranza di essi che non adempie diligentemente ai propri doveri. D’altro canto, è pure necessario che un datore di lavoro che chiede sacrifici ai propri dipendenti in nome del rilancio e della crescita, debba, per ragioni di coerenza e credibilità, essere pronto con altrettanta solerzia e precisione ad indicare un piano di investimenti dettagliato, che remuneri adeguatamente nel medio lungo periodo il sacrificio sopportato dalla forza lavoro. In questo senso la vicenda riguardante il nuovo contratto FIAT appare come un’occasione perduta per elaborare un accordo autenticamente basato sulla condivisione dei sacrifici e dei profitti, capace di scardinare meccanismi vetusti e fare del sistema delle relazioni industriali italiano il laboratorio in cui elaborare la formula del rilancio dell’economia nazionale.